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L’uomo selvatico


“L’uomo selvaggio non ha mai smesso, nel corso del tempo, di sparire e riapparire. Si è deformato, è cresciuto, rimpicciolito, ora con tanti capelli, ora calvo, è il Bene, è il Male”.

Robert McLean Wilson

Charles Fregèr, Wilder Mann

L’uomo selvatico, per noi oggi che della dimensione selvatica abbiamo perso quasi tutto, può apparirci “così lontano” e al contempo “così vicino”. Riferimento cinematografico a parte, questo doppio movimento è a mio avviso indispensabile per dare una lettura contemporanea dell’uomo selvatico, il Wilder Mann anglosassone, quello alpino e quello delle diverse regioni italiane ed europee. L’uomo selvatico, comune a moltissime culture, si fa approcciare “da lontano” attraverso una lettura e di osservazione “antropologico-culturale”, l’unica possibile mancando ormai l’immediatezza, la reazione di pelle o un altro tipo di reazione anche strutturata; è possibile al contempo una ricognizione, una visione “da fuori” più ravvicinata, attraverso il medium del reportage, la macchina fotografica. Questo doveva saperlo bene Charles Frègere quando si mise in moto per concretizzare il suo progetto “Wilder Mann”. La maschera ed il costume rivestono un’ importanza che non risiede solamente nella preservazione del folklore ma piuttosto nella necessità di irradiare magicamente contenuti sopiti nella maschera o nel costume stesso. Queste maschere, sebbene artigianali e realizzate con la povertà di materiali che le ha sempre contraddistinte e cioè vimini, paglia, pelo, erba, muschio, corteccia, corna di animali, legno e realizzate in maniera sapiente in modo da celare qualsiasi particolare “umano”, come per esempio le mani ed il viso, possiedono un potere tremendo, un mistero tremendo: a guardarle, siamo risucchiati dentro un vortice di secoli e millenni; proviamo paura, incantamento, soggezione, venerazione oppure riso; a volte leggiamo in queste maschere dei chiari richiami sessuali, altre volte la maschera vuole invece sottolineare lo stretto rapporto uomo-animale, e talvolta imitare in tutto e per tutto l’animale, come accade per esempio nelle maschere dell’orso. Il motivo per cui questi travestimenti molto poveri ma efficaci ci incutono timore o stupore, quasi ci riguardassero, è un segreto che dal neolitico o addirittura da prima è andato smarrito. Forse la chiave per un diverso approccio è ancora lì, attaccato a quei costumi e a quelle maschere spaventose e arcane, che tintinna dai campanacci e dalle cinture, che si nasconde nei loro passi, nell’incedere rituale, nelle grida. Ma noi non sappiamo più vedere, tutto precipita, come le maschere, nel gorgo indistinto dei riti dei nostri avi, in quella dimensione pagana tanto più spaventosa quanto indecifrabile. Eppure in quel seno abbiamo vissuto, da quel seno proveniamo. Molte generazioni addietro, in quel grembo “caldo” e naturale ci siamo nutriti, in continuitá tra carne e natura, pelle e fieno, piedi e terra, imparando la pratica tramandata di abitare l’abisso e di provare al contempo sensazioni famigliari e naturali e uno stato di trance e di distacco da realtà, quasi ci fosse una continuità naturale in tutte questi aspetti, che dovevano fluire senza sforzo: uomo e animale, braccia o raccolto, peli o spighe; apprendevamo tutto questo senza fatica e senza preparazione, era una dimensione entro la quale vivevamo, sigillata sotto la nostra carne, naturale come il flusso del sangue. Ma tornando all’inizio del discorso, l’uomo selvatico ci appare così lontano perchè le maschere che lo impersonano le vediamo da una distanza culturale che non ci rende possibile l’avvicinamento, un “fuori” che non ci restituisce la comprensione dei significati, mentre per certi versi riusciamo a dare una lettura da “vicino” perchè pur trattandosi di elementi culturali distanti, sono però ancora capaci di farci provare delle emozioni, anche se difficilmente decifrabili. Questi elementi sono da attribuire forse a stati mentali arcaici quando il confine uomo-animale era più facilmente attraversabile e la razionalità non dominava tutti gli aspetti del quotidiano. Una sorta di fusione, di Eden primordiale, uno stato di grazia dominato dal cervello destro dove l’uomo abitava l’ambiente e la sua stessa vita senza la frizione e il rallentamento della ragione pervasiva.

Tutti questi elementi sono stati via via rimossi dalla coscienza e giacciono in ripostigli sotterranei che sono rimasti chiusi in fondo a noi stessi a partire dall’alba del cristianesimo che privilegiò la coscienza e proibì la celebrazione dei diversi misteri, il culto dei molti dei, asciugando gli archetipi e creando un dualismo pericoloso per la psiche: la divisione tra bene e male, tra puro e impuro, tra spirito e anima, dimensioni che erano perfettamente integrate, in un’unità e in flusso costanti.

…(…) “Così accade per la serie Wilder Mann, con cui Fréger esplora da tempo riti e tradizioni europee in cui l’abito diventa maschera, travestimento, incarnazione del mito. Ispirate a una concezione ciclica dell’esistenza, queste mascherate tradizionali si tengono ogni anno, particolarmente in inverno, in quasi ogni angolo d’Europa. La ricerca di Fréger ha toccato così Austria, Bulgaria, Croazia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Italia – Sardegna e Alto Adige in particolare –, Macedonia, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Scozia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svizzera, Ungheria e, più di recente, Inghilterra e Irlanda. Nelle settanta fotografie della mostra vediamo, dunque, uomini che sono entrati nella pelle del ‘selvaggio’ – il ‘wilder mann’ è, secondo la leggenda, il frutto dell’unione tra un orso e una donna – diventando fantoccio di paglia, diavolo, mostro dalle mascelle d’acciaio. Personaggi umani e maschere zoomorfe – capra, cervo, cinghiale e naturalmente orso – compongono una sequenza che, se da un lato colpisce per la straordinaria diversità delle trasformazioni, dall’altro vede affiorare in certi elementi ricorrenti – pelli, campane, bastoni, corna – una sorta di ineffabile trasversalità, parzialmente misteriosa e non certo riconducibile agli aspetti più recenti della cosiddetta globalizzazione.

“L’uomo selvaggio non ha mai smesso, nel corso del tempo, di sparire e riapparire. Si è deformato, Villon, è cresciuto, rimpicciolito, ora con tanti capelli, ora calvo, è il Bene, è il Male”.

Questo scrive Robert McLiam Wilson nel testo che apre il volume “Wilder Mann – O la figura del selvaggio”, edito in Italia da Peliti Associati, che raccoglie le fotografie di Fréger sul rito quasi paneuropeo del camuffamento primordiale. Le immagini del continente selvaggio oscillano tra estetiche minacciose e figurazioni buffe, tra la cupa evocazione della paura e i territori, opposti e complementari, del carnevale e del grottesco. Si tratta, in ciascuno dei casi, di superfici che hanno spessore e importanza. Di apparenze che non ingannano, risalendo invece dalle più recondite e ancestrali profondità”.1

“In molte regioni alpine esiste un rituale che inquadra l’uomo selvatico non solo sul piano fisico ma in una dimensione spirituale ben precisa.. Durante questa antica cerimonia che cade sotto il periodo che noi chiamiamo Carnevale, viene braccato ma lui, vistosi raggiunto, non reagisce ma si immola volontariamente in zone destinate a sacrifici umani ed animali: le Are o Tine. Come simbologia l’uomo selvatico è ambivalente. In sé racchiude anche l’Orso che rinasce dal letargo proprio a febbraio. Quindi l’uomo selvatico corrisponde ad una divinità sotterranea, mentre l’orso al Sole. La sua connotazione ambigua di figura ambivalente, la si può ritrovare nel fatto che viene rispettato per la sua profonda conoscenza dei boschi e nei ritmi della natura ma, nel contempo viene accusato di delitti contro la comunità e quindi ucciso. Il suo lato infernale e tellurico viene sacrificato alla Nuova Luce primaverile e l’uccisione rituale permette però all’uomo selvatico di accedere alle fonti delle origini dandogli la possibilità di rinascere in tutte le specie animali e vegetali.

Charles Fregère – Wilder Mann

Questo preambolo ci serve per descrivere ed inquadrare alcuni manufatti presenti sul territorio. Tina dell’uomo selvatico. Questo monolite si trova sulla sommità di un dosso ed è scavato in un blocco unico con una “camera” che misura mt 1,40 x 1,60 ed ha una profondità media di 55 cm. A fronte vi è un foro che in altro contesto studiosi di archeologia e religioni interpretano come il cosiddetto Foro dell’Anima e cioè l’apertura da dove l’anima del morto esce per poi rientrarvi. A fianco vi è un altro incavo che poteva essere uno scranno o contenere un “signacolo”, ma tutto ciò non si potrà appurare fino a che non si indagherà con scavi archeologici tutta l’area. Ricordiamoci che potrebbe essere una sepoltura o come dicono le leggende una tina sacrificale e un indizio potrebbe venire da manufatti presenti in zona e così pure la presenza di un rudere di una chiesa antica potrebbe far pensare ad una specie di esorcizzazione del sito.4 Spesso sia l’uomo che la donna selvatica portano come dono il saper fare il formaggio ed altre scoperte del mondo “contadino”. Perchè il mondo dell’insediamento, il mondo agricolo del neolitico sembra aver bisogno della mediazione di un essere selvatico, che vive nei boschi ed è quasi del tutto simile a un animale? Cosa ci nascondono queste leggende, queste favole dove la dimensione selvatica “sconfina” ed invade quella agricola e organizzata ed anzi insegna e tramanda? il segreto è serbato e perso nel cuore del Neolitico e forse ancora più in là nei tempi ancora più remoti quando il nomadismo cedette il passo a insediamenti stabili.

“Quell’al di là, che é poi la selva, il bosco, che riapre la dimensione dell’immaginario, del sogno, quindi della vita, anche se appena pre/sentita. “L’altra sponda é avvolta in una densa nebbia, e soltanto a tratti dall’oscurità giungono luci e suoni. ” (Irradiazioni. Diario 41-45 ). Ma giungono. L’”altra sponda” istituisce un passaggio. Come in Holderlin (nell’Inno Andenken) “Su lente passerelle/Spirano brezze cullanti/ Grevi di sogni dorati.”.raccontò come la “Wildnis”6 e il bosco lui li trovò bambino, giocando tra le sterpaglie alte che crescevano tra le macerie di Dresda. Il bosco é il primordiale che irrompe, il non convenzionale, la natura viva e “scorretta”. Anche i deserti metropolitani sono pieni di selve risuonanti, purché noi ci si entri come sulle “lente passerelle/grevi di sogni dorati”, e non come in un niente. O in un tutto di prodotti, che é poi la stessa cosa. Allora l’orrido della selva ci sorriderà. E noi lo ameremo. E saremo salvi. Perfettamente selvatici.5

(1) “Wilder Mann”, Ufficio Stampa Galleria del Cembalo

(2) “Your place and Mine”, Seasons, Northern Ireland

(3) Henry Bourne Photographer, Folklore

(4) “L’UOMO SELVATICO E MONTERCHI” da Archeologia e Mistero in val Tiberina

(5) Selvatici saremo salvi, di Claudio Risè

(6) “Selvatichezza”


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