«Giardino chiuso tu sei, sorella mia, sposa, giardino chiuso, fontana sigillata»
Cantico dei Cantici (4, 12)
“Hortus conclusus soror mea, sponsa, hortus conclusus, fons signatus”

Apennino Tosco-Emiliano, anno 980 d.c. : il conte Maldolo fa dono all’abate benedettino San Romualdo di un vasto campo: il Campus Maldoli, “l’eremo” di Camaldoli.
“Con questo nome iniziarono a chiamarsi tutti gli eremi, ossia i luoghi solitari di culto, che successivamente si fonderanno in Italia. Gli orti, che prima servivano solo a fornire legumi alla comunità, presero ad abbellirsi di fiori e d’aiuole ed i monaci erano soliti ritrovarsi là all’aperto, nelle belle giornate estive, passeggiandovi conversando intimamente con Dio”. (5) “L’hortus conclusus”, termine coniato nel Medioevo intorno all’anno mille, era un “orto” a tutti gli effetti oppure un giardino, sempre delimitato da muri e quindi virtualmente inaccessibile dall’esterno. Era, oltre a una realtà fisica, una Dimensione spirituale a forte valenza simbolica. Infatti l’orto delimitato, che richiama anche a una dimensione di autosufficienza e ritiro dal mondo ma che del mondo è anche piccola copia sebbene fortemente idealizzata; è anche clausura e reclusione volontaria, protezione da un “esterno” che fa paura, dominato dalla confusione, dalla povertà e dalla violenza, dove, a partire dai primi secoli della cristianità, l’ordine naturale vegetale riprende il ciclo della dissipazione e rigenerazione. I boschi, le foreste e le radure, abbandonate per lungo tempo e rese ingovernabili e misteriose, irriconoscibili dopo secoli di guerra e di fame, crescono disordinatamente. Mentre i boschi ai margini dei centri abitati si gonfiano in larghezza ed altezza, le foreste si fanno sempre più impenetrabili, riassumendo le loro dimensioni arcaiche, dense ed intricate, dove in vaste aree non filtra nemmeno la luce del sole in pieno giorno. Pericolose fiere e violenti agguati erano le realtà immaginate dai monaci arroccati nei loro monasteri e dalla gente comune che viveva dentro o ai margini delle città e che nel bosco si avventurava per cercare cibo o legna da ardere. La vita nella selva era brutale e rendeva bruto chi si ostinava a viverci, dato che offriva forse qualche radice, qualche bacca o qualche frutto occasionale. Vivere nel bosco alla maniera degli anacoreti (o dei briganti) era dunque un’esperienza cruda, a volte violenta e potenzialmente pericolosa anche dal punto di vista spirituale in quanto poteva condurre alla degradazione morale alla quale ci si poteva arrendere per i molteplici bisogni che affliggevano la persona nella sua lotta quotidiana in un luogo tanto ostile. Nonostante queste insidie, “La foresta dell’Europa occidentale aveva anche i suoi abitanti: fuorilegge o banditi che in essa trovavano rifugio, monaci ed eremiti che ne facevano luogo di preghiera e meditazione. A tal proposito risulta interessante lo studio condotto da Jacques Le Goff, che istituisce una corrispondenza diretta tra luoghi desertici e aree boschive: secondo lo studioso francese nasce, con il cristianesimo medievale, l’immagine di una foresta-deserto che rappresenta il luogo del romitaggio e della solitudine, in cui l’uomo può ritirarsi e trovare la pace interiore.”(6) Già a partire dai primi secoli della cristianità spinte centripete in seno alla Chiesa avevano creato il desiderio in molti religiosi di vivere in eremitaggio, nel “deserto” della selva ad imitazione di Sant’Antonio. Alcuni religiosi, i cosiddetti anacoreti, si appartarono nei boschi o nelle foreste, praticando un’ascesi rigorosa e soprattutto solitaria. Sembra però che una tale libertà d’azione non fosse vista di buon occhio dalla Chiesa, che vigilava su ogni possibile deriva morale od ereticale. Non stupisce quindi che gli anacoreti venissero disciplinati già a partire dal quinto secolo dopo cristo: (…) “pur salvaguardando l’aspirazione individuale ad un cammino di maggiore intensità nella preghiera, nell’ascesi e nella solitudine, San Benedetto mette in guardia anche dai molti pericoli del vivere lontano da ogni controllo e senza un’adeguata preparazione, «non saggiati da nessuna regola maestra di esperienza», con il rischio di avere come criterio solo l’inclinazione personale o, peggio, «l’appagamento dei desideri». Una preoccupazione registrata da molte disposizioni ecclesiastiche, così che con il concilio provinciale di Vannes (465), ai monaci viene vietato di ritirarsi in un eremo se prima non hanno trascorso un lungo periodo in comunità e, una volta divenuti eremiti, li pone sotto la giurisdizione dell’abate; le medesime indicazioni sono riprese nel concilio di Agde del 506, mentre in quello di Toledo (646) si raccomanda di autorizzare soltanto i monaci di provata virtù a condurre vita isolata, e il sinodo di Francoforte (794) vincola al consenso dell’abate o del vescovo l’accesso all’eremo. Dopo i sinodi di Aquisgrana dell’816-817, comunque, la sola vita solitaria ammessa fu quella della reclusione e la stabilitas benedettina che imposta a tutti i cenobiti escludeva ormai la possibilità di forme di vita solitaria fuori dal chiostro”. (8)

Bisogna ricordare però che in quel periodo le foreste erano cresciute e dismisura, fitte e impenetrabili. Questo contribuiva a renderle dei luoghi “altri” su cui proiettare le proprie inquietudini. Ancora oggi queste immagini rieccheggiano nelle favole e nella memoria collettiva, boschi dove ci si perde e si fanno brutti incontri, infestate da animali feroci, malintenzionati, streghe e presenze demoniache. Brunetto Latini sembra esser stato il primo del suo tempo a raffigurare nella sua opera incompiuta “Il tesoretto” la selva da attraversare come luogo interiore e paesaggio dell’anima, dove si compie un passaggio non solo fisico ma di attraversamento interiore e di trasformazione : “Nel panorama della letteratura volgare delle origini, infatti, il Latini è il primo ad attribuire alla selva la valenza di luogo di perdizione e certo non stupisce che Dante, proprio all’inizio del suo viaggio e della sua opera, si rifaccia ad un autore cui egli stesso nella Commedia aveva riconosciuto un ruolo magistrale. Infine, al di là della passata fortuna letteraria del topos, nessun luogo meglio della selva poteva fungere da punto di partenza di un viaggio sapienziale e allegorico e generare quello smarrimento iniziale da cui prende avvio, con il sostegno di una guida, la ricerca di sé”. (6)”Il giardino che fa da cornice al Decameron di Boccaccio è opera dell’uomo, ma riproduce le condizioni primigenie: grazie ad esso chi è mortale può liberarsi dall’angoscia rappresentata dal tempo, dalla morte, dai pericoli della natura. Il giardino è “hortus conclusus”: vi si entra da una porta, c’è un muro intorno, c’è separazione tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori, la realtà esterna e quella interna: il luogo del giardino è separato da tutto, è l’ “altra” natura, quella non sottoposta al divenire”. (1)
“Chretienne de Troyes nel suo romanzo Erec et Enide, descrive un giardino, “Verziere Magico” come teatro di un terribile gioco (spezzare un giuramento attraverso un incantesimo) che egli chiama “Gioia della Corte”(9) :
Erec, infattti, arrivato presso il castello di Brandigan, chiede all’amico Guivret di
rivelargli il nome dell’avventura che si trova lí vicino, e da cui nessun cavaliere che
l’avesse tentata è ritornato vivo (…)
Ah! Dio! si dicevano l’un l’altra, (le dame del giardino) povere noi! Questo cavaliere che passa di qui, viene per la Gioia della Corte. La pagherà cara: non è mai giunto nessuno da una terra straniera per conquistare
la Gioia della Corte, che non ne ottenesse onta e danno e non vi lasciasse la testa in pegno’.” (10)
Esso (il giardino) non era circondato nè da un muro nè da uno steccato ma solo dall’aria che circondava interamente il giardino per negromanzia, sì che non vi si poteva entrare che per un unico accesso, proprio come se fosse stato cinto da un’inferriata”. Vi maturavano fiori e frutti sia d’inverno che d’estate, che, per incantesimo si lasciavano mangiare solo là dentro, e non permettevano li si portasse fuori. Chi avesse voluto prenderne uno non sarebbe mai riuscito a uscire e non avrebbe raggiunto il varco finchè non lo avesse rimesso al suo posto. Inoltre, non vi era uccello che voli sotto il cielo e che con il suo canto diletti e affascini e rallegri l’uomo di cui il quel giardino non si potesse udire la melodia, e v’enerano in gran numero e di diverse specie e la terra, per tutta la sua estensione non produce spezia o pianta medicinale tale da guarire qualunque malattia, che non attecchisse in quel verziere e non crescesse in gran quantità.” (2)
Col Passare del tempo il giardino assunse sempre più un’idea pragmatica, nella misura in cui apparivano classi più agiate “intermedie” come quelle dei mercanti. Si recupera allora l’ideologia classica del giardino assieme alle invenzioni più recenti (si pensi all’idroponica per es.). In questo contesto il giardino viene assimilato a uno status symbol e considerato in maniera “utilitaristica” in quanto provvisto di erbe di tutti i tipi e dotato di alberi da frutto. (giardino della salute e giardino alimentare). Già Lapo Gianni nei suoi sonetti descriveva “i giardini fruttuosi di gran giro – con grande uccellaggine, pien di condotti d’acqua e cacciagione”. Il giardino era a quei tempi (due-quattrocento) una delle condizioni essenziali per la felicità e per una vita “giovine, sana, allegra e sicura”. il Boccaccio, nella terza giornata del Decameron, ci introduce a un giardino che è un hortus conclusus a tutti gli effetti, dove vi sono dolci frutti e fiori profumati, vialetti diritti “come saette”, a testimoniare la concezione che si aveva del giardino, armoniosa e geometrica, con una fonte in mezzo, dalla quale si irradiavano i vialetti attorno al quale stavano gli alberi da frutto e centinaia di uccelli canterini. Più avanti, avvicinandosi al “cuore” del giardino il gruppo di giovani scorge dei teneri animali, quasi ultraterreni nella loro descrizione: conigli, lepri, caprioli e cerbiatti, mansueti ed addomesticati. Forse qui più che altrove si racchiude uno dei motivi salienti della passione per questi luoghi ameni (Locus Amaeno): per il tempo di Boccaccio almeno, esiste dietro e in fondo agli alberi da frutto e i fiori profumati, molto al di là dei teneri animali e della fonte che a volte assume contorni favolistici, “murato” fuori, il “gran contagio” ossia la peste. L’uomo medievale oppone, quando può, la bellezza all’orrore in un modo che sembra quasi volutamente antitetico. L’Hortus Conclusus dei monaci e il giardino delle delizie dei “laici” si contrappongono anch’essi al pericolo, al disordine e all’incertezza che si agitano nei boschi e nelle foreste. Proprio in quei secoli si stava formando un movimento opposto a questa segregazione volontaria, ordinata, depurata dalle brutture e dalle prove del quotidiano da consumarsi entro delle mura. Verso il mille si era tornati infatti a sottrarre alla natura per ottenerne profitto e sostentamento. Così nelle foreste i porci razzolavano ai piedi delle querce mangiando ghiande e qualcuno del villaggio vicino si portava un po’ più in là, avventurandosi alla ricerca di erbe, funghi, castagne, miele, bacche commestibili e legna da ardere. L’industria del legno stava facendo i primi passi. dopo un intervallo durato secoli. Si conquistavano, è vero, i campi a colpi di roncola, ma a parte questo aspetto, che interessava di solito le parti meno interne del bosco, esisteva ancora un area sconfinata di fitta vegetazione che si guardava con atavico timore. Prova ne è che questo timore del bosco è arrivato fino a noi, sotto forma di favole e leggende. Ritorna a più riprese, l’idea del bosco o della foresta come “luogo selvaggio dell’errore e del terrore”, (1) mentre ” Il giardino è negazione del tempo, del passare della vita umana e della morte. L’Eden è senza moto e senza vento, poiché il moto e il vento rappresentano il turbamento, l’instabilità”. (1) Il giardino diventa così archetipo del paradiso terrestre che vuole imitare, sua immagine materiale. Un luogo senza tempo, reso quasi astratto nelle sue geometrie insistite, un ideale di tranquillità e riposo, depurato dagli orrori dell mondo, dove il tempo è sospeso e la natura, riportata alla sua purezza, offre i suoi frutti maturi dai rami sporgenti. Spesso al centro del giardino vi è una fonte dall’acqua fredda e limpida, a volte contornata da belle fanciulle, più o meno vestite. “Guillame de Lorris, autore assieme a Jean de Meun* del “Roman de la Rose”, descrive in un sogno il giardino dell’amore, traboccante di tutte le delizie, e che si scoprirà più avanti molto popolato: Il poeta narra di un sogno fatto all’età di vent’anni nel quale (….) gli pare di svegliarsi in un mattino di maggio e di avviarsi poi a un fiume chiarissimo, finché, risalendo lungo la riva, vede un grande giardino tutto chiuso e cinto da alte mura, il “giardino d’Amore”. Girando intorno alla cinta murata giunge finalmente a un uscio piccolo e stretto. Qui dopo molto bussare gli apre Oiseuse, una pulzella bella e gentile (“une pucele / qui asez estoit gente et bele”), che lo fa entrare e lo informa che il signore del giardino è il Signor Deduit. Incamminatosi verso un luogo appartato, trova Deduit che danza in compagnia (…). Guillaume de Lorris riprende il topos del locus amoenus profano che si lega a doppio filo al giardino inviolabile dell’Eden. L’elemento naturale contribuisce a far del giardino un luogo sospeso al di fuori del tempo e dello spazio. All’interno di esso, infatti, il canto degli uccelli – e Guillaume enumera, tra gli altri, usignoli, gazze, stornelli, tortorelle, rondini, cardellini, cince e allodole – reca una gioia immensa al giovane amante, il quale, quasi a confermare l’inviolabilità del luogo, afferma che “una melodia così dolce mai orecchio umano aveva sentito”. E non è un caso, ancora a sottolineare la vicinanza del giardino della Rose con l’Eden che Oiseuse informi Amante, ancora sull’uscio, del fatto che gli alberi provengano dall’Oriente, luogo dove era collocato, per la tradizione medievale, il paradiso terreste. I miniatori accolgono immediatamente le suggestioni e le proposte del testo. In una miniatura (..) viene condensata in quattro scene i primi versi della Rose, dal sogno di Amante all’arrivo alle porte del giardino. Dall’alto muro, mentre Amante è accolto da Oiseuse, una natura ancora astratta si mostra nei tre alberi dalle chiome rigogliose”. Un diverso approccio naturalistico, con una spiccata attenzione al dettaglio, ha il miniatore (…) (che disegna una scena dove) Amante dorme in una tenda da campo collocata al centro della scena, circondato da numerose specie vegetali e faunistiche. In esemplari più tardi il fascino e un’osservazione quasi scientifica della natura, uniti al gusto ricercato di una committenza alta, faranno del giardino della Rose un vero e proprio luogo del diletto, un paradisum voluptatis in terra (…) : “L’intero giardino è delimitato da spalliere di fiori ed è attrezzato con incannucciate grate. Una recinzione lignea lo divide in due zone, una con sedili, l’altra con aiuole. Alberi da frutto evocano il piacere dei sensi. Il canto degli uccelli si intervalla con la musica del liuto. Dalla fontana sgorga acqua limpida. Eppure ciò che rende il giardino della Rose così vicino al giardino biblico è sicuramente la sua inaccessibilità, sottolineata dalla presenza dell’alto muro merlato”. (…..) Il muro di cinta del giardino d’Amore dunque ha valenza difensiva; è inaccessibile e invalicabile, come il giardino dell’Eden. A differenza di quest’ultimo, tuttavia, quello della Rose non è chiuso. È un Eden laico. Amante, e con lui coloro che sono disposti a soccombere alle frecce d’Amore, vengono ammessi a entrare, ma solo dopo aver lasciato fuori dal verziere i difetti che trovano dipinti sul muro di cinta: Convoitise (Lussuria) Avarice, Envie e Tristesse, così come Haine, (Odio) Félonie (Perfidia), Vilenie, (Viltà) Vieillesse, (Vecchiaia) Papelardie (Ipocrisia) e Pauvreté (Povertà). Il giardino, (è il) luogo dove, nell’ideale di Guillaume de Lorris, si realizza il sogno cortese, lo sbocciare dell’amore e il piacere di tutti i sensi in armonia con la natura..” (3)

“Dante, alla fine del suo viaggio oltremondano, torna nel Paradiso Terrestre, luogo dell’utopia alle origini della storia umana: l’immagine del tempo in cui l’uomo è stato felice. Il Paradiso terrestre è molto simile, nella sua conformazione fisica, ai tanti giardini letterari: giardini coltivati in cui vi sono piante dalle virtù positive e le perturbazioni meteorologiche sono assenti. Il giardino è negazione del tempo, del passare della vita umana e della morte. L’Eden è senza moto e senza vento, poiché il moto e il vento rappresentano il turbamento, l’instabilità. L’unico movimento è quello del cielo Primo Mobile che gira intorno alla Terra e che, incontrandosi con l’immobile montagna del Purgatorio, crea una continua piacevole brezza da est verso ovest. Gli animali dell’Eden sono tutti amici tra loro e non fanno alcun danno all’uomo. La purificazione dal peccato e il ritorno all’integrità originaria caratterizzano il giardino. Dante lega il Paradiso terrestre al problema religioso. Esso, tuttavia, può ricollegarsi al “locus amoenus” della tradizione classica: il giardino primaverile col canto degli uccelli. Il giardino, opera divina, costituisce l’archetipo di ogni altro luogo di pace che possa esservi sulla terra. Esso è il contrario della “selva”, luogo selvaggio dell’errore e del terrore, ed è manifestazione della perfezione della natura.” Nel Decameron di Boccaccio, la novella di Nastagio degli Onesti sfrutta un topos della selva venatoria, termine che sta ad indicare una dimensione “naturale” dove l’uomo sfrutta a suo piacimento gli animali che lì vivono. E’ qui che l’uomo medievale altolocato si sente più a suo agio in una dimensione silvana: in groppa a un cavallo, con un nutrito gruppo di pari, impugnando delle aste, un arco con faretra colma di frecce, la balestra ed il falcone, dando fiato ai corni, il cui suono, monito di morte, si spinge nelle profondità del bosco. Egli ha così l’impressione di dominare sulla natura, solitamente con pochi imprevisti. La selva della novella di Boccaccio è sia teatro della scena che soggetto, protagonista insieme ai due giovani sventurati: la sua presenza pervasiva subito ci appare spettrale, oltre ad accentuare in maniera silenziosa il contrasto del ribaltamento dei ruoli: “E oltre a ciò, davanti guardandosi, vide venire per un boschetto assai folto d’albuscelli e di pruni, correndo verso il luogo dove egli era, una bellissima giovane ignuda, scapigliata e tutta graffiata dalle frasche e da’ pruni, piagnendo e gridando forte mercé; e oltre a questo le vide a’ fianchi due grandi e fieri mastini, li quali duramente appresso correndole spesse volte crudelmente dove la giugnevano la mordevano; e dietro a lei vide venire sopra un corsier nero un cavalier bruno, forte nel viso crucciato, con uno stocco in mano, lei di morte con parole spaventevoli e villane minacciando”. In questa storia del Decameron il bosco fa da sfondo a una scena orripilante, dove degli animali feroci, dei mastini, inseguono una giovane donna della quale poi straziano le carni. Il cavaliere spiega a Nastagio che questa scena avviene ogni venerdì e la sua incomprensibilità e la ferocia della spiegazione unite all’orrore e alla ripetitività, ne confermano la natura infernale a cui sono condannati i due ragazzi: la prima, per aver sdegnato il giovane perchè non alla sua altezza, il secondo per essersi tolto la vita per lei. Boccaccio sceglie una pineta come teatro dell’inferno:, i pini maestosi che con i loro alti fusti le cime aeree e i rami elevati, che sempre illuminano il bosco, deliziando l’olfatto con la loro resina. Una pineta infernale quindi, con tappeti di aghi di pino ed il sole che filtra agevolmente tra i rami.

Una scena curiosa, e tanto più impressionante perchè sospesa, quasi fuori dal tempo e che contemporaneamente si rivela ai viventi, in una visione trasparente L’unico albero che fa da leitmotiv (in questa viene menzionato) in altre scene venatorie infernali è il pruno. Sembraperò che Boccaccio si fosse ispirato per la sua descrizione a una pineta nel ravennate: “Parimenti va considerato il riferimento alla pineta di Classe, cui Dante si era ispirato nella descrizione della foresta dell’Eden, (Purg. XVIII 20: «per la pineta in su ’l lito di Chiassi»)”. (6) “Il motivo della caccia infernale, tuttavia, era diffuso già prima di Dante e Boccaccio: da secoli in Europa circolavano leggende sul tema e già con Cesario di Heisterbach e il suo Dialogus miraculorum57 (XII 20) le visioni ultraterrene avevano assunto carattere esemplare e raffiguravano la punizione di determinati peccati. Il topos didattici, come un exemplum che doveva incutere timore nell’ascoltatore o nel lettore ed indirizzarlo verso una condotta moralmente impeccabile. Sicuramente nota a Boccaccio doveva essere la caccia infernale narrata da Jacopo Passavanti nello Specchio di vera penitenza (III 2).
Il bosco che circonda il Paradiso terrestre di Dante è una “selva spessa e viva”, contrapposta alla “selva selvaggia e aspra e forte” nella quale egli si era smarrito all’inizio del poema. Il giardino è il luogo del ritorno alla naturalezza, del ritorno all’età dell’oro che Tasso rimpiange nel Coro dell’Atto I dell’Aminta: Nel giardino non ci sono stagioni, fiori e frutti crescono insieme, non cadono le foglie, il giardino rispecchia l’armonia della creazione, secondo S. Ambrogio (Hexameròn), infatti, la terra è stata creata in primavera. In tutto il corso della letteratura dal ‘200 al ‘500 il giardino è staccato dal tempo, non reca in sé l’impronta della morte, né l’immagine aspra della natura tra autunno e inverno. (1)

(1) IL GIARDINO DELL’UTOPIA: “LOCUS AMOENUS” E METAFORA FILOSOFICA di Maria Barreca
(2) Franco Cardini, “il Giardino del cavaliere, il giardino del mercante. la cultura del giardino nella Toscana tre-quattrocentesca”.
(3) Tensioni allegoriche e suggestioni naturalistiche nel giardino medievale su alcuni esemplari illustrati del Roman de la Rose, di Salvatore Sansone
(4) Il noto ms. Harley 4425 di Londra, realizzato a Bruges verso la fine del Quattrocento per Engelberto II (m. 1504), luogotenente di Carlo il Temerario. (Tensioni allegoriche e suggestioni naturalistiche nel giardino medievale Su alcuni esemplari illustrati del Roman de la Rose, di Salvatore Sansone)
(5) “Artemisia Gentileschi” : hortus conclusus
(6) Elena Ciccarelli: “Il tema della selva nella letteratura volgare dalle Origini al Trecento”
(7) la miniatura è conservata all’Arsenal di Parigi, (ms. 5226) ed è datata alla prima metà del secolo XIV (da: (3) Tensioni allegoriche e suggestioni naturalistiche nel giardino medievale su alcuni esemplari illustrati del Roman de la Rose, di Salvatore Sansone)
(8) Atti del Convegno internazionale di studi Luoghi di culto, necropoli e prassi funeraria fra tarda antichità e medioevo Cimitile-Santa Maria Capua Vetere, 19-20 giugno 2014, a cura di Carlo Ebanista e Marcello Rotili.
(9) Chretienne de Troyes, “Erec et Enide”
(10) B.B. Amedei, JOIE DE LA CORT / JOIE DE L’ACORT. L’ARMONIA DEGLI ELEMENTI DISCORDI
NELL’EREC ET ENIDE, 2014