Breve ricognizione del romanzo “Il nome della rosa” di Umberto Eco.

“Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” (La rosa sta prima del nome, ossia la rosa precede il nome così rimaniamo solo con nudi nomi ). E cioè la rosa, la sua essenza precede il suo nome così che nominandola non avremo che il suo nudo nome e non la sua essenza. La “vera” rosa è inafferabile, si spoglia automaticamente della sua preziosa essenza nel momento in cui la nominiamo, il nome è quindi un tradimento della sua natura originaria che si spoglia ad ogni invocazione diventando così puro fantasma, una chimera irraggiungibile. “Il significato della scelta, come spiegherà lo stesso Eco, risiede nel fatto che di tutte le cose alla fine non resta che un puro nome, un segno, un ricordo. “La locuzione latina “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” è una variazione dal verso I, 952 del poema in esametri De contemptu mundi di Bernardo di Cluny”3 : Essa deve la sua fortuna a Umberto Eco che ne ha fatto l’ultima frase del suo romanzo Il nome della rosa.
Il verso, che ha dato origine al titolo dell’opera, è stato spiegato dallo stesso Eco in Postille a “Il nome della rosa”: «Bernardo varia sul tema dell‘ubi sunt4 (da cui poi il mais où sont les neiges d’antan di François Villon5 salvo che Bernardo aggiunge al topos corrente (i grandi di un tempo, le città famose, le belle principesse, tutto svanisce nel nulla) l’idea che di tutte queste cose scomparse ci rimangono puri nomi».1
È interessante notare come le edizioni moderne del poema di Bernardo riportino, sulla base di alcuni manoscritti, un testo significativamente diverso: stat Roma pristina nomine, nomina nuda tenemus.2 La traduzione del verso sarebbe allora: “Roma antica esiste solo nel nome…”. Pertanto la traduzione del verso di Eco sarebbe analoga, ma nel tentativo di dargli maggior senso e significato ne sono state date diverse interpretazioni. Tradotto letteralmente, il verso di Eco intende sottolineare che al termine dell’esistenza della rosa particolare non resta che il nome dell’universale. Questa versione si contrappone alla teoria di Guglielmo di Champeaux, il quale sosteneva che gli universali continuano ad avere una realtà ontologica anche dopo i particolari. Il verso però si può interpretare anche in un altro modo, affermando che “la rosa primigenia, la rosa che viene prima di tutte le singole rose che possiamo vedere, l’universale della rosa, esiste solo di nome, non nella realtà. Anche in questo senso è contestato il realismo estremo di Guglielmo, il quale sosteneva anche che gli universali esistono ontologicamente già prima degli individuali; al contrario, il verso afferma che all’inizio, nel fondamento della realtà, si può trovare soltanto il nome dell’universale e non un ente realmente esistente come è invece il particolare.
In particolare le diverse interpretazioni hanno origine dal diverso intendere il termine pristina che letteralmente significa: precedente, antico, passato, anteriore, primigenio, primitivo, che è all’origine.
Nel contesto di tale discussione appare interessante che già William Shakespeare utilizzi la rosa come soggetto per una acuta osservazione sull’essenza delle cose (lo stesso Eco in un’intervista nega la paternità della sua rosa a Shakespeare ma così, in qualche modo, ne legittima il confronto).3 In particolare il poeta inglese si interroga sul significato del nome; infatti in Romeo e Giulietta: “What’s in a name? That which we call a rose, / By any other name would smell as sweet” (“Cosa vi è in un nome? Quella che chiamiamo rosa non cesserebbe d’avere il suo profumo dolce se la chiamassimo con altro nome”) (Giulietta: atto II, scena II), ma tale argomentazione sembra portare a conclusioni leggermente differenti, come osservato dallo stesso Eco. 1

Scrivere su Eco è perfino peggio che leggerlo» così il critico letterario Piergiorgio Bellocchio infieriva sull’autore de Il Nome della Rosa in un polemico, ma arguto saggio del 1986 intitolato «Un’eco è un’eco è un’eco è un’eco…», pubblicato quando il romanzo stava per essere anche consacrato anche alla gloria cinematografica. Il Nome della Rosa, che sta rivivendo un altro momento di grande riscoperta grazie alla fortunata fiction prodotta dalla Rai, è sempre stato un romanzo che, come tutti i grandi successi editoriali, ha diviso il mondo di critici, intellettuali e dei semplici lettori, venendo coinvolto in dibattiti, spesso oziosi, sulle sue interpretazioni. Il debutto narrativo di Umberto Eco è infatti un affresco che raccoglie in sé molti universi culturali, molti libri, prestandosi a innumerevoli livelli di lettura e di decodificazione, alcuni fondati, altri azzardati, surreali o semplicemente fantasiosi. È il destino di tutte le opere complesse, ma proprio queste interpretazioni hanno esposto l’opera prima di Eco narratore ad attacchi su molti fronti.3

“Mi sono messo a leggere o a rileggere i cronisti medievali, per acquisirne il ritmo, e il candore” racconta Eco. Essi avrebbero parlato per me, e io ero libero da sospetti. Libero da sospetti, ma non dagli echi dell’intertestualità. Ho riscoperto così che gli scrittori hanno sempre saputo (e che tante volte ci hanno detto): i libri parlano sempre di altri libri e ogni storia racconta una storia già raccontata. Lo sapeva Omero, lo sapeva Ariosto, per non dire di Rabelais o di Cervantes. Per cui la mia storia non poteva che iniziare col manoscritto ritrovato, e anche quella sarebbe stata una citazione (naturalmente). Così scrissi subito l’introduzione, ponendo la mia narrazione a un quarto livello di incassamento, dentro a altre tre narrazioni: io dico che Vallet diceva che Mabillon ha detto che Adso disse…
“Era una bella mattina di fine novembre. Nella notte aveva nevicato un poco, ma il terreno era coperto di un velo fresco non più alto di tre dita. Al buio, subito dopo laudi, avevamo ascoltato la messa in un villaggio a valle. Poi ci eravamo messi in viaggio verso le montagne, allo spuntar del sole. Come ci inerpicavamo per il sentiero scosceso che si snodava intorno al monte, vidi l’abbazia.”
Questo è il terzo e ultimo incipit di Il nome della rosa di Umberto Eco. Il primo è una finzione, parla di un manoscritto che non esiste e di una ricerca che non è mai avvenuta.. (…). Il secondo è il libro nel libro. In pratica sarebbe il libro “cercato” dal “curatore” nelle prime cinque pagine. Inizia con una citazione biblica e presenta un anziano frate che sceglie di raccontare alcuni eventi ai quali ha preso parte in gioventù”.
Incipit
“In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Questo era in principio presso Dio e compito del monaco fedele sarebbe ripetere ogni giorno con salmodiante umiltà l’unico immodificabile evento di cui si possa asserire l’incontrovertibile verità. Ma videmus nunc per speculum et in aenigmate e la verità, prima che faccia a faccia, si manifesta a tratti (ahi, quanto illeggibili) nell’errore del mondo, così che dobbiamo compitarne i fedeli segnacoli, anche là dove ci appaiono oscuri e quasi intessuti di una volontà del tutti intesa al male.”
Finale
“Ripeto ancora oggi a me stesso che la mia scelta fu buona, e feci bene a seguire il mio maestro. Quando infine ci separammo, egli mi fece dono delle sue lenti, poi mi abbracciò con la tenerezza di un padre e mi disse:”Tu hai vissuto in questi giorni, povero ragazzo, una serie di avvenimenti in cui ogni retta regola sembrava essersi sciolta. Ma l’anticristo può nascere dalla stessa pietà, dall’eccessivo amor di Dio o della verità, come l’eretico nasce dal santo e l’indemoniato dal veggente; e la verità si manifesta a tratti anche negli errori del mondo, cosicchè dobbiamo decifrarne i segni, anche là dove ci appaiono oscuri e intessuti di una volontà del tutto intesa al male”. Non lo vidi più, nè so che cosa si accaduto di lui, ma prego sempre che Dio abbia accolto l’anima sua e gli abbia perdonato i molti atti di orgoglio che la sua fierezza intellettuale gli aveva fatto commettere. Ma, ora che sono molto, molto vecchio, mi rendo conto che di tutti i volti che dal passato mi tornano alla mente, più chiaro di tutti vedo quello della fanciulla che ha visitato tante volte i miei sogni di adulto e di vegliardo. Eppure, dell’unico amore terreno della mia vita non avevo saputo, nè seppi mai, il nome.
Adso da Melk

Ma chi era costei che sorgeva davanti a me come l’aurora? Bella come la luna, fulgida come il sole e terribile come un esercito spiegato in battaglia?
- Alfabeta n. 49, giugno 1983
- De contemptu mundi, lib. 1, v. 952.
- Umberto Eco: “Così ho dato il nome alla rosa”, su repubblica.it, 21 febbraio 2016
- A volte interpretato ad indicare la nostalgia, “l’ubi sunt” (letteralmente dove sono? nel senso dove sono finite/i?) è un motivo letterario ricorrente nei componimenti medievali, principalmente una meditazione sulla mortalità e la transitorietà della vita. Per significato traslato l’ubi sunt sta a indicare la nostalgia di ciò che fu. Ubi sunt è una frase che deriva originariamente da un passaggio del libro di Baruch (3:16-19) la Bibbia in latino volgare; il passaggio incominciava con il monito; “Ubi sunt principes gentium?” Dove sono i principi delle nazioni? che divenne poi un luogo comune nella letteratura medievale.
- The “Ballade des dames du temps jadis” (“Ballata delle dame che furono”) è un poema di Francois Villon che celebra donne famose nella storia e nella mitologia ed è un esempio del genere dell’ubi sunt. E’ scritto nella forma della ballata e fa parte della collezione di poesie “Le Testament“.