La follia delle Ninfe

Il primo essere a cui Apollo parlò sulla terra fu una Ninfa. Si chiamava Telfusa e subito ingannò il dio. Apollo aveva attraversato la Beozia venendo da Calcide. La vasta piana che fu poi ricca di grano era coperta allora da una densa foresta. Tebe non esisteva. Non c’erano strade nè sentieri. E Apollo cercava il suo luogo. Voleva fondarvi il suo culto. Secondo l’inno omerico ne rifiutò più d’uno. Poi vide un “luogo intatto” (chòros apèmòn) dice l’inno. Apollo gli rivolse la parola. Nell’inno il passaggio è brusco: quel luogo è un essere. Nel giro di due versi, senza transizione, il maschile chòros diventa un essere femminile (“ti fermasti vicino a lei” e “le rivolgesti queste parole”). Qui, con la massima rapidità e densità si mostra che cos’è la Ninfa nell’economia divina dei Greci. Apemòn significa “intatto” perchè “incolume”, “illeso”; si dice di ciò che non ha subito pémata, le “calamità” che vengono dagli dei e dagli uomini. Ma Telfusa vide l’arrivo di Apollo come una calamità. E subito, celando l’ira, lo inganna. Consiglia al dio di andare altrove, perchè il suo maestoso santuario sarà disturbato dal “fragore delle cavalle e dei muli” della Ninfa che “bevono alle sue sacre sorgenti”. I visitatori guarderebbero le cavalle più che il tempio – dice Telfusa con deliziosa, pefida ironia – e aggiunge più adatto ad Apollo è un luogo aspro, scosceso, là dove le rupi del Parnaso si spaccano in una gola. Apollo, ignaro, segue il consiglio. Scopre luogo che sarà Delfi e la sua “fonte dalle belle acque”, circondata dalle spire di un’ immane draghessa, che uccide “chiunque la incontri”. Sarà invece Apollo ad ucciderla e lasciarla putrefarsi al sole. E’ questa la sua grande impresa, la sua grande colpa. Il primo pensiero che venne ad Apollo dopo aver ucciso Pitone fu che la prima “fonte dalle belle acque” lo aveva ingannato. Tornò sui suoi passi. Provocò una frana di macigni sulla fonte di Telfusa, per umiliarne la corrente. Poi elevò un altare e rubò a Telfusa anche il suo nome, facendosi chiamare Apollo Telfusio. Così l’inno omerico. Ma osserviamo alcuni dettagli. Quando Apollo giunge a Telfusa e quando giunge a Delfi pronuncia parole identiche, manifestando la sua volontà di fondare sul luogo un oracolo per quanti abitano il Peloponneso, le isole e “quanti abitano l’Europa”: è questo il primo testo dove l’Europa viene nominata come entità geografica, che qui ancora significa soltanto la grecia del centro e del nord. Inoltre: a Telfusa e a Delfi il dio trova egualmente “una fonte dalle belle acque”, come il testo dice usando identica formula per i due luoghi. Infine: nell’inno Pitone è un essere femminile – e così anche appare in altre tradizioni. Tutto questo da’ un’impressione, quasi ottica, di sdoppiamento: come se uno stesso evento si fosse manifestato due volte: una volta nel dialogo ingannevole e malizioso fra il dio e una ninfa, una volta nel silenzioso duello tra il dio-arciere e la draghessa arrotolata. Al centro, nell’uno e nell’altro caso, è una fonte che sgorga. E nell’uno e nell’altro caso si tratta della storia di un potere che viene spodestato. La Ninfa e la draghessa sono guardiane e depositarie di una conoscenza oracolare che Apollo viene ora a sottrargli. In tutti i rapporti tra Apollo e le Ninfe – rapporti tortuosi, di attrazione, persecuzione e fuga, felici soltanto una volta, quando Apollo si trasformò in lupo nel coito con la Ninfa Cirene – rimarrà questo sottinteso: che Apollo è stato il primo invasore e usurpatore di un sapere che non gli apparteneva, un sapere liquido, fluido, al quale il dio imporrà il suo metro. Ma non solo nella conoscenza oracolare, anche nell’uso della sua arma Apollo è debitore delle Ninfe: furono loro a insegnarli a tendere l’arco. Quanto alla divinazione, nell’inno a Ermes si accenna a certi esseri femminili che ne furono per lui “maestre”: tre fanciulle alate, sorelle venerabili, dalla testa cosparsa di bianca farina, che svolazzano sul Parnaso nutrendosi di miele. Sono chiamate Thriai e molti tratti ci inducono a identificarle con le tre Ninfe dell’antro Coricio, sull’alto Parnaso. Le Thriai dicono il vero se hanno potuto mangiare miele, ma mentono e turbinano nell’aria se ne sono prive. Apollo si mostrò impaziente di sbarazzarsi di loro. Voleva cancellare ogni richiamo alle origini del suo potere sovrano. Così le donò ad Hermes, dono avvelenato, con parole che le umiliavano, come se le Thriai rappresentassero le basse opere della divinazione e dovessero rimanere per sempre, con i loro dadi e le loro pietruzze, in un recinto infantile della conoscenza. Verso Telfusa, come verso le Thriai, Apollo seguì lo stesso impulso: deprezzare, umiliare esseri femminili portatori di un sapere a lui precedente.

Così gli rimase accanto un vuoto. E si può ipotizzare che il luogo lasciato libero dalle Thriai dovesse essere, un giorno, occupato dalle Muse. Di fatto, quando abitavano ancora l’Elicona, le Muse erano appunto tre. E, quando parlano a Esiodo, all’inizio della Teogonia, si dichiarano enunciatrici sia della verità che della menzogna, esattamente come le Thriai. Ma tacendo su un dettaglio si può supporre per ingiunzione di Apollo: il miele. Eppure, secondo Filostrato, quando gli ateniesi mossero per fondare colonie in Ionia, le Muse guidarono la flotta sotto forma di Api. E la Pizia veniva chiamata “l’ape delfica”. Ma Apollo è tenuto a cancellare ogni ricordo del miele, così come volle sostituire il secondo tempio di Delfi, costruito dalle api stesse in cera e piume con un tempio di bronzo. Ora avrebbe potuto rivendicare a sè solo di conoscere il pensiero di Zeus. Questa fu la prima e la più pura menzogna di Apollo. Che Apollo mentisse ci aiutano a scoprirlo scoliasti e lessicografi, questa legione di spie ci ragguagliano sulla vita segreta degli Dei. Così veniamo a sapere che ben prima di Apollo era stato lo stesso serpente Pitone a praticare la mantica a Delfi. E che prima di Apollo, già Dioniso vi pronunciava oracoli. Infine Plutarco, sacerdote del santuario ci assicura che la sovranità delfica era divisa in parti uguali tra Apollo e Dioniso. Dietro tutte queste vicende si profilava un evento oscuro. In attesa che apparisse il “figlio più forte del padre” vaticinato da Themis, che l’avrebbe spodestato, Zeus volle spartire la sovranità tra due suoi figli, Apollo e Dioniso. E il modo della conoscenza che affidò loro fu lo stesso: la possessione. Nell’era della pienezza di Zeus regnava la metamorfosi come statuto normale della manifestazione. Mentre nell’era già intaccata dalla profezia di Themis la realtà si irrigidiva, gli oggetti si fissavano. Ora la metamorfosi sarebbe migrata nell’invisibile, nel regno sigillato della mente. Sarebbe diventata conoscenza. E quella conoscenza metamorfica si sarebbe addensata in un luogo, che era insieme una fonte, un serpente e una ninfa. Che questi tre esseri fossero tre modalità nell’apparire di un essere solo è ciò che, attraverso tracce sparse con avarizia nei testi e nelle immagini, ci viene intimato per secoli – e ancora oggi. In una appendice del suo imponente studio sul mito delfico, Python, Fontenrose osserva che uno scrittore, il nomade libertino Norman Douglas, aveva anticipato scoperte a cui Fontenrose stesso e altri studiosi sarebbero giunti “dopo un duro lavoro di ricerca erudita”. Apriamo il capitolo “Dragons” di old calabria. Qui Douglas si era posto, con improntitudine infantile, la domanda brutale che schiude le porte: “che cos’è un drago?”. E aveva risposto: “un animale che guarda o osserva”. Di fatto, Drakòn deriva da Dèrkomai, che significa “avere vista acutissima”. Ma qual’è l’occhio del drago? Douglas risponde: la sorgente. Più che connessi, drago e sorgente sono parti di uno stesso corpo. Disparati esempi raccolti da Douglas, ai quali Fontanrose aggiunge “la parola ebraica Ayin che significa “occhio” e “sorgente”, concordano in un punto: l’acqua vitrea della sorgente non soltanto viene protetta dalle spire del drago, ma è il suo sguardo micidiale, che scruta ogni estraneo. Per conquistare la sovranità sulla possessione, Apollo aveva dovuto battersi innanzitutto con un altro occhio, con un o sguardo che avrebbe incorporato in sè uccidendo Pitone, così come Atena portava sul petto, nell’egida, lo sguardo della sua vittima, la Gorgone. La conoscenza attraverso la possessione, la scoperta in cui convergono Dioniso e Apollo, non è qualcosa che si può aggiungere a un assetto già delineato del pensiero quale appendice, fenomeno marginale o eccentrica variazione. Se la si accetta, essa scardina dall’interno ogni ordine preesistente, così come Dioniso scosse i muri dell’incredula Tebe. Se la conoscenza su cui si fonda Delfi non è soltanto inganno di astuti sacerdoti, allora la voce del soggetto che conosce sarà sempre almeno una voce doppia, la voce della phrònesis che controlla ma anche una parola che accoglie in sè un dio, énteos, parola che, con lo stesso carattere abrupto, prima s’impone, poi ci abbandona. E quella voce doppia è tale perchè corrisponde a uno sguardo doppio, lo sguardo che osserva e lo sguardo che contempla colui che osserva, l’occhio di Apollo e l’occhio di Pitone celato in lui, la ninfa che sgorga nell’invisibile. Se intendiamo il verbo essere come segnale di ciò che i veggenti vedici chiamavano bandhu, le “connessioni che sole danno un significato a ciò che esiste, si può dire che la fonte del serpente, ma la fonte è anche la Ninfa, quindi la Ninfa è il serpente. Ciò che in Melusina si riunirà in un solo corpo, a Delfi si spartì in tre esseri: Pitone, Telfusa, la fonte, perchè apollineo è innanzitutto ciò che scandisce e separa: il metro. Ma unica era la sostanza. Perciò le Ninfe possono essere sia salvatrici sia devastatrici – o l’uno e l’altro insieme. Già seguendo le scarse testimonianze sulla vita di Tefulsa scopriamo che era chiamata Telfusa Erinys – e allora ricordiamo come, nella teogonia di Esiodo, le misteriose Ninfe dei frassini erano nate insieme all’Erinni dal sangue che sgorgava dalla piaga che il falcetto di Crono aveva aperto nel ventre del padre Urano. Le Ninfe eufemizzate che occhieggiano dagli angoli di un soffitto barocco sono pur sempre sorelle di sangue, e nel senso più letterale, delle funeste giustiziere. Anche altri tratti ci appaiono ora in una nuova luce. Perchè mai le Ninfe dovrebbero essere Akoimetoi, “insonni”? Ma perchè tali sono appunto i draghi, perchè la fonte sgorga senza interruzione e il suo sguardo non cessa di vegliare. Poco prima di Tebe, sulle pendici del Citerone, era la città di Platea. Qui, nel 479, i Greci sconfissero i Persiani in una battaglia che risolse per sempre quella minaccia. Si può dire che soltanto dopo Platea l’Europa irriducibilmente l’Europa, emancipata ormai dall’eventualità di essere inghiottita dall’Asia, come un suo ultimo ribelle promontorio. Prima della battaglia, secondo Plutarco, l’oracolo di Delfi diede indicazioni precise sugli atti di devozione che gli Ateniesi dovevano compiere, se volevano vincere. Pregare le Ninfe sphragitides era uno di questi – ed è l’unico caso in cui le Ninfe ci risultano evocate in occasione di guerra. C’è poi un’altra testimonianza: Pausania menziona, quindici stadi sotto la cima del Citerone, un antro delle Ninfe, chiamato Sphragidion, di cui si diceva che in antico era stato un santuario oracolare. La parola Sphragidites rinvia a Sphragis, “sigillo”. Quanto a Sphragidion, è anche il nome di un tipo di gioielli che venivano offerti nei templi per adornare le dee. Bouchè – Leclercq propose di tradurre Sphragitides “sigillate” come a dire “le misteriose”. Ci si domanda allora: qual’era il sigillo il segreto delle Ninfe? E viene subito da osservare che, se questo segreto esiste, è stato protetto, non meno bene del segreto di Eleusi, così bene da non essere neppure riconosciuto. Anzi, con le Ninfe è d’uso negare l’evidenza. A dispetto di un imponente groviglio di miti, un illustre studioso come Martin P. Nielsson scrisse nella sua Geshichte der Griechischen Religion, che è stata e continua ad essere un riferimento d’obbligo: “Con la mantica le Ninfe hanno soltanto casualmente a che fare [ si noti la delicatezza di quella “casualità” che si insinua nella vita di essere divini]; ciò che la letteratura testimonia è irrilevante [ per esempio il Fedro di Platone]”. Correlativa di questa negazione di ogni conoscenza divinatoria attribuibile alle Ninfe è ovviamente l’affermazione che si legge poco dopo. Le Ninfe “incarnavano la vita della natura elargitrice di fertilità.” E con questa frase la ricerca si sente appagata. Così, se un frammento di Eschilo ci dice che le Ninfe sono biòdoroi, che esse “offrono il dono della vita”, che cosa dovremmo pensare di questa mirabile parola? Dovremo, come una compatta falange di studiosi in quest’ultimo secolo, porre le Ninfe in rapporto esclusivamente con la “fertilità”? “Fertilità: non c’è parola che abbia prodotto maggiori flagelli, dagli anni di Mann Hardt a oggi, negli studi mitologici e religiosi. Alla “fertilità” è facile ricollegare, se si vuole, qualsiasi fenomeno religioso e qualsiasi dio del mondo antico. Ma a patto di contentarsi di una protratta tautologia, un po’ come se un antropologo di un altro mondo pensasse di dare una spiegazione ultima ed esauriente dei più disparati fenomeni del mondo che ci circonda affermando che sono connessi alla produzione. Enunciato indubbiamente vero, ma di minima forza conoscitiva. La letteratura o il riciclaggio dei rifiuti o la pubblicità o l’astrofisica sono tutte attività connesse con il ciclo della produzione. Ma abbiamo detto forse con ciò qualcosa di specifico, individuante su di esse? Così per la fertilità. Essendo la natura il referente ultimo del mondo antico, come per noi la società nella sua demoniaca autosufficienza, è chiaro che qualsiasi dio può essere vestito a forza con uno di quegli “abiti di confezione” della fertilità, come una volta li chiamò Georges Dumezil. Ma tutto ciò non ci aiuterà molto a capire la peculiarità di quegli dei. E si può immaginare il sorriso, dall’alto, essi dedicheranno a tali loro stolti devoti.

Roberto Calasso, La Follia che viene dalle Ninfe

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