Yves Bonnefoy su Arthur Rimbaud

courtesy Saatchi art.com
Yves Bonnefoy, nel suo libro “L’impossibile e la libertà” ha scritto che “Izambard, il professore di retorica di Rimbaud, aveva riferito, in una testimonianza decisiva, che “ogni nuovo scontro con la madre apportava una fioritura di immagini scatologiche nelle sue poesie”. Rimbaud stesso chiamava la madre “bocca d’ombra”.
“Il senso dell’opacità, l’ossessione delle tare dell’esistenza sono in lui la conseguenza diretta della mancanza d’amore. – Considero dunque tutto ciò come un vero attentato metafisico subito da Rimbaud bambino, che l’ha obbligato all’ “atroce scetticismo”, all’aggressività e allo smarrimento. (..) L’essere spossessato dell’amore priva Rimbaud della comunione possibile con ciò che è. E vede sia il reale che la sia coscienza frammentarsi in pericolose dualità.In un primo tempo, molto indietro nell’infanzia, sarà questo il sentimento – così liberatore in un certo senso, così “poetico”, di un altro mondo, più trasparente e più libero, al di là del cielo quotidiano. Ci sono, nelle Illuminations, mille vestigia di questa reverie infantile. Nella “grande casa di vetro ancora grondante” (che è già altra cosa dal reale, è già la coscienza errabonda, una volta che l’opacità è sparita che si è schiarito il cielo ostile), Rimbaud è stato evidentemente uno di quei bambini a “lutto” che guardano le “splendide immagini”. Sono loro che inventano l’altrove. Quando vedono, o credono, di vedere “una carrozzella abbandonata nel ceduo, o che scende di corsa per il sentiero, infiocchettata”, o ancora “sulla strada, attraverso gli ultimi alberi del bosco, una compagnia di piccoli attori in costume”; quando un grande circo (“sfilata di sortilegi. Infatti: carri carichi di animali di legno dorato, pennoni e tele variopinte, al gran galoppo di venti cavalli da circo pezzati, e bambini e uomini sulle bestie più sorprendenti “) fa sosta per un istante nella città”; (..) “Noi non siamo al mondo, – scriverà Rimbaud. – La vita vera è assente”. Egli, è vero, ha avuto presto accesso ad una opposizione più profonda. Il qui, il triste orizzonte morale, è decisamente il contrario della vita secondo natura, che è, nel suo principio, innocente e libera, portatrice dei raggi dell’amore universale. L’uomo, afferma Soleil et chair, è caduto dalla sua trasparenza nativa. Ha dimenticato “la nascita eterna di Venere”.”Mi strascicavo per vicoli puzzolenti e, chiusi gli occhi, mi offrivo al sole, dio di fuoco”. Anche avvolta dai raggi più chiari, l’anima di Rimbaud resta nera e inguaribile. LA DOPPIA OMBRA dalla stessa bocca”. Da “L’impossibile e la libertà” – Yves Bonnefoy
Io non conosco Rimbaud tanto quanto Yves Bonnefoy. Non possiedo la sua erudizione nè la matura bellezza del suo linguaggio. Tuttavia non posso fare a meno di cogliere una griglia interpretativa che limita e appesantisce la sua indagine letteraria. La psicoanalisi o la psicologia hanno spesso sostituito la funzione critica, imponendo un’indagine del profondo a gran parte della letteratura del novecento. Questa pratica ha reso agevole la lettura simbolica di certe opere, ne ha rivelato le “dinamiche” interne, ha permesso di “svelare” personaggi, caratteri, anche stili di scrittura, ma a lungo andare si è rivelata un grosso handicap, un limite che ha contraddistinto la critica letteraria fino a epoca recente. E’ l’equivoco fatale della psicologia del “profondo”. Se l’indagine è “profonda” ne consegue che ci condurrà al “nocciolo” delle cose portandoci come un filo d’Arianna, al centro del labirinto.
Questo è stato un grande equivoco del novecento. In realtà troppo spesso ci accorgiamo che non esiste centro nè fondo e ogni verità ne contiene un’altra e un’altra ancora e così via.
D’altra parte la frammentazione inevitabile dell’esistente che non può essere ridotta a visione o verità unica è in grado di offrire solamente significati opachi, dualismi “insanabili” la cui unica guarigione possibile consiste solamente nella loro comprensione d’insieme, tollerando l’incertezza e procedendo senza mappe. I cieli del novecento, colle loro stelle fisse non potevano, per questioni storiche e sociali, prevedere tutto questo.
La “griglia interpretativa”, sia essa adottata in un setting psicoterapeutico o per sondare gli abissi di un libro, non può che, per forza della sua stessa natura, circoscrivere e imbrigliare ogni manifestazione affettiva o razionale dentro la gabbia psicologica delle interpretazioni univoche e irrevocabili.
Ogni interpretazione rischia così di diventare definitiva, un monolite. Un personaggio, un moto d’animo, una luce ricevono una specie di imprimatur, quello di essere nient’altro che “quello”. Ogni significato non può essere contemporaneamente qualcos’altro, nè essere generato da un tensione di opposti. Il contenitore psichico non può ospitare maturità ed infantilismo, sanità e follia senza gridare alla scissione. Infatti, per l’indagine del profondo le coppie di opposti sono il demonio ed indicano un conflitto, una frammentazione, uno stato “primitivo” della coscienza.
Un carattere, un’emozione, uno stato d’animo ricevono così un’interpretazione irredimibile, sono dannati dalla loro stessa irriducibilità a cadere nella prigione della interpretazione “unica”.Dalle righe del saggio di Bonnefoy su Rimbaud traspare chiaramente la compressa, cupa disperazione del poeta ragazzo.
E’ abbastanza chiaro che il celebre critico francese lo consideri un infelice. Questo assioma giace sul fondo delle sue pagine, come un grande relitto scuro dall’alto di acque trasparenti. Quella macchia per sempre sommersa è l’essere incompiuto di Rimbaud, la sua tragedia. Non è diventato “persona” a tutto tondo. La sua immaturità riceve così una prognosi infausta.Da quel relitto sommerso si dipanano tutte le spiegazioni sulla presunta “infelicità” di Rimbaud. La parola gioia o felicità che pure Rimbaud ha provato e di cui ci ha lasciato testimonianza, non viene neanche sfiorata o presa in considerazione.
A questo punto, consentitemi di entrare anch’io nel gioco interpretativo-psicologico ed affermare che Bonnefoy è probabilmente vittima delle sue stesse proiezioni. Infatti, chi è infelice non vede che infelicità. Per questo Bonnefoy non può cogliere il vitalismo degli slanci vagabondi del poeta, la sua passione politica e civile, i rapimenti estatici, le esaltazioni improvvise ed assolute, le assurde, idiote beatitudini.
Il critico deve per forza ricondurle agli slanci di un infelicità che non può coltivare nient’altro che patetiche speranze. Le azioni scellerate, le fughe, sono ridotte a semplici ribellioni, acting-out le cui motivazioni sono sempre da ricercare nelle croniche deprivazioni affettive. E’ pur vero che Bonnefoy, sotto consiglio delle parole di Izambard è stato capace di cogliere la probabile origine delle sue “reverie”, il senso del magico, le visioni di una società perfetta, per sempre ignota, il cui battito d’ali egli segue da sotto il cielo.
Per Bonnefoy, come per buona parte della psicologia del profondo, chi non è stato “nutrito” a sufficienza, chi non ha ricevuto abbastanza affetto è un dannato, un alienato, un condannato all’infelicità eterna. E’ dalla bocca d’ombra, la bocca scura della mancanza, dalla madre o meglio dalla sua negazione che sgorgano le immagini, il caledoiscopio continuo delle sue poesie, in un trasmutare di pensieri, immagini e associazioni che ne “sovvertono il senso” rifondando il linguaggio. Da questo dissidio, da questo essere sbalzato fuori dalla tenera e tiepida carne della madre, in un cono d’ombra, Rimbaud trae ispirazione, dolore, sommovimento e gioia. La bocca d’ombra è anche ferita e luogo di dissidi irrisolti, di contraddizioni insanabili. Ma questa vertigine di senso, questo caos affettivo è anche trasmutazione ed arte, poesia, oltre ad essere malattia ed è anche e soprattutto, rifondazione del linguaggio, una nuova arcadia.
Le ferite sono bocche, parlano (James Hillman). Non sono dannate, nè vanno curate e ricucite come sembra prescrivere Bonnefoy . Non sono solamente piaghe in suppurazione, mortali. La ferita ha un potere quasi mistico, oltre a parlare, raccontare la propria storia, la ferita è una lacerazione attraverso la quale penetra la luce più forte, la sensibilità esasperata riceve tutto, anche l’estasi, la comunione mistica col mondo.La “bocca d’ombra” comprende quindi molti stati, anche antitetici l’uno all’altro. E’ anche una mancanza, ma la mancanza originaria non è sempre irriducibilmente dannata. La mancanza di fiducia, il non essersi riscaldato sotto le ali della madre non sono riusciti a “dannare” ma piuttosto a liberare la luce. La sua natura riposa in questi stati antitetici che un’interpretazione psicologica consueta e superficiale, per quanto dotta ed elaborata, non è in grado di ricomporre. Non perchè Rimbaud sia “poeta” ed in quanto poeta è un intoccabile, una creatura insondabile, un essere sacro. E’ l’anima stessa ad essere insondabile, ad essere sacra. Non si può dannare e condannare a un’eterna mancanza di luce in virtù di un passato deprivato negli affetti. La psiche non funziona solo a questo modo. Così Rimbaud a mio parere aveva trovato e provato la fiducia, la completezza, proprio in virtù della sua stessa ferita, che la luce attraversava in tutto il suo corpo, connettendolo alla luce dello stato di grazia originario, a quella che egli chiamava la “nascita eterna di Venere”. Queste la psicologia del profondo le chiamerebbe “difese”, patetici tentativi di un ego leso nei suoi gangli vitali di ricostituirsi, seppur in maniera fittizia. Difese maniacali, quelle che ci sollevano in alto, facendoci provare ebbrezza, unione con la natura, un senso di fratellanza universale. (Vedi l’esperienza della Comune di Parigi del 1870). Ma se trattiamo ogni manifestazione umana “anormale” in questo modo non salveremo niente e trasformeremmo ogni afflato in manifestazione patologica. Le incandescenze diventano pietre: difese, mancanze, la madre distante. A queste promesse alate verrebbero mozzate le ali. Il punto di vista è quello dell’uomo “comune” che filtra ogni manifestazione attraverso le sue riposanti certezze.
Il corpo del poeta è dilaniato e proprio per questo aperto a tutti i sensi, alla loro sregolatezza, a stati di beatitudine e incanto che rischiarano l’ombra fluiscono come un dolce fiume. La felicità non è solo agognata, non è il paradiso per i dannati, è qualcosa che ha riscaldato il suo essere e che ha abitato la sua carne. La gioia esiste, è presenza che risale dalla stessa oscurità per mordere e risplendere nonostante tutto. “La gioia. Il suo dente, dolce da morire mi avvertiva al canto del gallo, al Christus venit, nelle città più oscure”.
“Izambard, il professore di retorica di Rimbaud, ha riferito, in una testimonianza decisiva, che “ogni nuovo scontro con la madre apportava una fioritura di immagini scatologiche nelle sue poesie”. Rimbaud stesso chiamava la madre “bocca d’ombra”.
“Il senso dell’opacità, l’ossessione delle tare dell’esistenza sono in lui la conseguenza diretta della mancanza d’amore. – Considero dunque tutto ciò come un vero attentato metafisico subito da Rimbaud bambino, che l’ha obbligato all’ “atroce scetticismo”, all’aggressività e allo smarrimento. (..) L’essere spossessato dell’amore priva Rimbaud della comunione possibile con ciò che è. E vede sia il reale che la sia coscienza frammentarsi in pericolose dualità.In un primo tempo, molto indietro nell’infanzia, sarà questo il sentimento – così liberatore in un certo senso, così “poetico”, di un altro mondo, più trasparente e più libero, al di là del cielo quotidiano. Ci sono, nelle Illuminations, mille vestigia di questa reverie infantile. Nella “grande casa di vetro ancora grondante” (che è già altra cosa dal reale, è già la coscienza errabonda, una volta che l’opacità è sparita che si è schiarito il cielo ostile), Rimbaud è stato evidentemente uno di quei bambini a “lutto” che guardano le “splendide immagini”. Sono loro che inventano l’altrove. Quando vedono, o credono, di vedere “una carrozzella abbandonata nel ceduo, o che scende di corsa per il sentiero, infiocchettata”, o ancora “sulla strada, attraverso gli ultimi alberi del bosco, una compagnia di piccoli attori in costume”; quando un grande circo (“sfilata di sortilegi. Infatti: carri carichi di animali di legno dorato, pennoni e tele variopinte, al gran galoppo di venti cavalli da circo pezzati, e bambini e uomini sulle bestie più sorprendenti “) fa sosta per un istante nella città”; (..) “Noi non siamo al mondo, – scriverà Rimbaud. – La vita vera è assente”. Egli, è vero, ha avuto presto accesso ad una opposizione più profonda. Il qui, il triste orizzonte morale, è decisamente il contrario della vita secondo natura, che è, nel suo principio, innocente e libera, portatrice dei raggi dell’amore universale. L’uomo, afferma Soleil et chair, è caduto dalla sua trasparenza nativa. Ha dimenticato “la nascita eterna di Venere”.”Mi strascicavo per vicoli puzzolenti e, chiusi gli occhi, mi offrivo al sole, dio di fuoco”. Anche avvolta dai raggi più chiari, l’anima di Rimbaud resta nera e inguaribile. LA DOPPIA OMBRA dalla stessa bocca”. Da “L’impossibile e la libertà” – Yves Bonnefoy
Io non conosco Rimbaud tanto quanto Yves Bonnefoy. Non possiedo la sua erudizione nè la matura bellezza del suo linguaggio. Tuttavia non posso fare a meno di cogliere una griglia interpretativa che limita e appesantisce la sua indagine letteraria. La psicoanalisi o la psicologia hanno spesso sostituito la funzione critica, imponendo un’indagine del profondo a gran parte della letteratura del novecento. Questa pratica ha reso agevole la lettura simbolica di certe opere, ne ha rivelato le “dinamiche” interne, ha permesso di “svelare” personaggi, caratteri, anche stili di scrittura, ma a lungo andare si è rivelata un grosso handicap, un limite che ha contraddistinto la critica letteraria fino a epoca recente. E’ l’equivoco fatale della psicologia del “profondo”. Se l’indagine è “profonda” ne consegue che ci condurrà al “nocciolo” delle cose portandoci come un filo d’Arianna, al centro del labirinto.
Questo è stato un grande equivoco del novecento. In realtà troppo spesso ci accorgiamo che non esiste centro nè fondo e ogni verità ne contiene un’altra e un’altra ancora e così via.
D’altra parte la frammentazione inevitabile dell’esistente che non può essere ridotta a visione o verità unica è in grado di offrire solamente significati opachi, dualismi “insanabili” la cui unica guarigione possibile consiste solamente nella loro comprensione d’insieme, tollerando l’incertezza e procedendo senza mappe. I cieli del novecento, colle loro stelle fisse non potevano, per questioni storiche e sociali, prevedere tutto questo.
La “griglia interpretativa”, sia essa adottata in un setting psicoterapeutico o per sondare gli abissi di un libro, non può che, per forza della sua stessa natura, circoscrivere e imbrigliare ogni manifestazione affettiva o razionale dentro la gabbia psicologica delle interpretazioni univoche e irrevocabili.
Ogni interpretazione rischia così di diventare definitiva, un monolite. Un personaggio, un moto d’animo, una luce ricevono una specie di imprimatur, quello di essere nient’altro che “quello”. Ogni significato non può essere contemporaneamente qualcos’altro, nè essere generato da un tensione di opposti. Il contenitore psichico non può ospitare maturità ed infantilismo, sanità e follia senza gridare alla scissione. Infatti, per l’indagine del profondo le coppie di opposti sono il demonio ed indicano un conflitto, una frammentazione, uno stato “primitivo” della coscienza.
Un carattere, un’emozione, uno stato d’animo ricevono così un’interpretazione irredimibile, sono dannati dalla loro stessa irriducibilità a cadere nella prigione della interpretazione “unica”.Dalle righe del saggio di Bonnefoy su Rimbaud traspare chiaramente la compressa, cupa disperazione del poeta ragazzo.
E’ abbastanza chiaro che il celebre critico francese lo consideri un infelice. Questo assioma giace sul fondo delle sue pagine, come un grande relitto scuro dall’alto di acque trasparenti. Quella macchia per sempre sommersa è l’essere incompiuto di Rimbaud, la sua tragedia. Non è diventato “persona” a tutto tondo. La sua immaturità riceve così una prognosi infausta.Da quel relitto sommerso si dipanano tutte le spiegazioni sulla presunta “infelicità” di Rimbaud. La parola gioia o felicità che pure Rimbaud ha provato e di cui ci ha lasciato testimonianza, non viene neanche sfiorata o presa in considerazione.
A questo punto, consentitemi di entrare anch’io nel gioco interpretativo-psicologico ed affermare che Bonnefoy è probabilmente vittima delle sue stesse proiezioni. Infatti, chi è infelice non vede che infelicità. Per questo Bonnefoy non può cogliere il vitalismo degli slanci vagabondi del poeta, la sua passione politica e civile, i rapimenti estatici, le esaltazioni improvvise ed assolute, le assurde, idiote beatitudini.
Il critico deve per forza ricondurle agli slanci di un infelicità che non può coltivare nient’altro che patetiche speranze. Le azioni scellerate, le fughe, sono ridotte a semplici ribellioni, acting-out le cui motivazioni sono sempre da ricercare nelle croniche deprivazioni affettive. E’ pur vero che Bonnefoy, sotto consiglio delle parole di Izambard è stato capace di cogliere la probabile origine delle sue “reverie”, il senso del magico, le visioni di una società perfetta, per sempre ignota, il cui battito d’ali egli segue da sotto il cielo.
Per Bonnefoy, come per buona parte della psicologia del profondo, chi non è stato “nutrito” a sufficienza, chi non ha ricevuto abbastanza affetto è un dannato, un alienato, un condannato all’infelicità eterna. E’ dalla bocca d’ombra, la bocca scura della mancanza, dalla madre o meglio dalla sua negazione che sgorgano le immagini, il caledoiscopio continuo delle sue poesie, in un trasmutare di pensieri, immagini e associazioni che ne “sovvertono il senso” rifondando il linguaggio. Da questo dissidio, da questo essere sbalzato fuori dalla tenera e tiepida carne della madre, in un cono d’ombra, Rimbaud trae ispirazione, dolore, sommovimento e gioia. La bocca d’ombra è anche ferita e luogo di dissidi irrisolti, di contraddizioni insanabili. Ma questa vertigine di senso, questo caos affettivo è anche trasmutazione ed arte, poesia, oltre ad essere malattia ed è anche e soprattutto, rifondazione del linguaggio, una nuova arcadia.
Le ferite sono bocche, parlano (James Hillman). Non sono dannate, nè vanno curate e ricucite come sembra prescrivere Bonnefoy . Non sono solamente piaghe in suppurazione, mortali. La ferita ha un potere quasi mistico, oltre a parlare, raccontare la propria storia, la ferita è una lacerazione attraverso la quale penetra la luce più forte, la sensibilità esasperata riceve tutto, anche l’estasi, la comunione mistica col mondo.La “bocca d’ombra” comprende quindi molti stati, anche antitetici l’uno all’altro. E’ anche una mancanza, ma la mancanza originaria non è sempre irriducibilmente dannata. La mancanza di fiducia, il non essersi riscaldato sotto le ali della madre non sono riusciti a “dannare” ma piuttosto a liberare la luce. La sua natura riposa in questi stati antitetici che un’interpretazione psicologica consueta e superficiale, per quanto dotta ed elaborata, non è in grado di ricomporre. Non perchè Rimbaud sia “poeta” ed in quanto poeta è un intoccabile, una creatura insondabile, un essere sacro. E’ l’anima stessa ad essere insondabile, ad essere sacra. Non si può dannare e condannare a un’eterna mancanza di luce in virtù di un passato deprivato negli affetti. La psiche non funziona solo a questo modo. Così Rimbaud a mio parere aveva trovato e provato la fiducia, la completezza, proprio in virtù della sua stessa ferita, che la luce attraversava in tutto il suo corpo, connettendolo alla luce dello stato di grazia originario, a quella che egli chiamava la “nascita eterna di Venere”. Queste la psicologia del profondo le chiamerebbe “difese”, patetici tentativi di un ego leso nei suoi gangli vitali di ricostituirsi, seppur in maniera fittizia. Difese maniacali, quelle che ci sollevano in alto, facendoci provare ebbrezza, unione con la natura, un senso di fratellanza universale. (Vedi l’esperienza della Comune di Parigi del 1870). Ma se trattiamo ogni manifestazione umana “anormale” in questo modo non salveremo niente e trasformeremmo ogni afflato in manifestazione patologica. Le incandescenze diventano pietre: difese, mancanze, la madre distante. A queste promesse alate verrebbero mozzate le ali. Il punto di vista è quello dell’uomo “comune” che filtra ogni manifestazione attraverso le sue riposanti certezze.
Il corpo del poeta è dilaniato e proprio per questo aperto a tutti i sensi, alla loro sregolatezza, a stati di beatitudine e incanto che rischiarano l’ombra fluiscono come un dolce fiume. La felicità non è solo agognata, non è il paradiso per i dannati, è qualcosa che ha riscaldato il suo essere e che ha abitato la sua carne. La gioia esiste, è presenza che risale dalla stessa oscurità per mordere e risplendere nonostante tutto. “La gioia. Il suo dente, dolce da morire mi avvertiva al canto del gallo, al Christus venit, nelle città più oscure”.