
Esiste una raccolta di poesie intitolata “in che luce cadranno”. Per me è una frase non solo poetica, e l’ho interpretata a modo mio; per me si riferisce a chi ha lavorato in silenzio, sull’orlo della follia. È probabile che come me abbia lavorato male, con pause, stanchezze e vuoti. Tante mancanze. Ma nonostante tutto ha continuato. Quando arriverà la morte, a ridurre in un concentrato di carne inintellegibile ognuno di noi, a valutare sotto quale luce si è lavorato, in che taglio obliquo, opposto alla vita si è vissuti, noi avremo tratto da quella vita spietata che ci ha voluto folli solo carne inerte. Ma noi ci siamo mossi per riassumerla e studiarla , ci siamo mossi, e noi scegliemmo il il taglio più affilato sulla cui lama ci si è spesi; allora sarà importante in che modo di luce si è spesa la propria esistenza. Non per la famiglia, non per gli amici, il lavoro o la carriera. Siamo stati sequestrati dalle cellule, questo il fatto, non abbiamo avuto modo di opporci e consegnati al nulla, la stanza dei matti, dalla follia corrosi e i muri ingialliti ci siamo alzati strappandoci dall’ostrica. Non per il piacere per quanto ci sforzammo di accoglierlo in ogni modo. Nostro compito era di percorrere la città elementare allungata nei panorami lividi e di morire come eravamo vissuti.
Tutta la vita è stata tesa come un arco, ogni singolo attimo. Allora per una manciata di secondi, anche noi sotto quella luce spiovente che illumina i volti e ricapitola le nostre piccole vite, allora saremo eroi. Eroi dei secondi, eroi impigliati in una luce per la quale abbiamo deciso di morire.