Lasciatemi qui al buio dove vivo di striscio, dove tendini e muscoli finalmente vanno a fondo. Qui non c’è piacere e nemmeno il riflesso della vita. Qui c’è il mio corpo malato che non si può più cancellare. Solo le vibrazioni delle auto e un vociare indistinto che viene da quelli di sopra quelli che possiedono la vera vita; io qui dentro spengo la luce con circospezione mentre sento galleggiare attraverso i muri il mondo che oramai non mi appartiene; abbasso le tapparelle con un fremito breve, scorro via la luce dove risiede la colpa che mi morde il collo sotto i capelli; mi immergo in questa piscina tiepida del buio come in un lavacro, il corpo cieco, accecato dalla luce , nel chiaroscuro dove si immergono quelli che non sono, quelli che la vita ha sconfitto e ha disfatto. Una volta macerati nella luce del divenire, che brucia nelle pieghe del giorno, fuggiamo ai ripari delle camere da quella cruda luce del sole che ci fotografa tutti lividi e sconfitti: questo è il meritato riposo per chi non è; al buio la carne riprende a respirare e siamo al riparo finalmente. Non abbiamo voluto essere soccorsi perché ci avevano annunciato senza il pianto di una madre; pieni di ferite abbiamo frequentato ascensori e autobus guardando il cielo bianco che faceva male agli occhi e abbiamo sperato che in quell’incandescenza fosse nascosto un dio capace di soccorrerci, abbiamo sognato sogni folli, gli altipiani di domani in una luce nuova, dove forse avremmo dimorato come gli altri. Allora una dolce pace avrebbe marciato fin verso al domani gonfiandosi nelle nostre vene. Ma per ora non resta che buttarsi sopra un letto, vestiti da capo a piedi e alzare le coltri sopra la fronte. Allenarsi a dormire, imporsi il dormire e anche se nel sonno la vita agra ci gratta sopra il cuore facendolo piangere e cantare una canzone terribile, per qualche momento intero noi NON SIAMO.
