L’Inno appare a tutti gli effetti come un componimento antico, del tutto tradizionale sia nella lingua che nello stile, come viene proposta dagli studiosi Halle, Halliday e Sikes, che lo collocano nel VII-VI sec. a.c..

Afrodite incorona un’erma dedicata a Dioniso, Myrina, 100-200 a.c. – British Museum
Dioniso, figlio di Semele gloriosa io ricorderò: come egli apparve lungo la riva del limpido mare, su di un promontorio sporgente, simile a un giovanetto nella prima adolescenza; gli ondeggiavano intorno le belle chiome scure; sulle spalle vigorose aveva un mantello purpureo. E presto, nella solida nave, apparvero veloci, sul cupo mare, pirati tirreni: li portava la sorte funesta. Essi, al vederlo, si scambiavano segni fra loro: rapidamente balzarono fuori e subito afferrandolo lo deposero nella loro nave, pieni di gioia nel cuore. Pensavano infatti ch’egli fosse figlio di re cari a Zeus, e volevano legarlo con legami indissolubili ma i legami non riuscivano a tenerlo, e i vincoli cadevano lontano dalle sue mani e dai piedi; egli se ne stava seduto, e sorrideva con gli occhi scuri. Il timoniere, comprendendo subito esortò i suoi compagni, e disse:«Amici, chi è questo dio possente che avete preso, e tentate di legare? Nemmeno la nave ben costruita riesce a portarlo. Certo, infatti, egli è Zeus, o Apollo dall’arco d’argento, o Posidone: poiché non è simile agli uomini mortali ma agli dei che abitano le dimore dell’Olimpo. Suvvia, lasciamolo andare sulla terra nera, subito; e non mettete le mani su di lui, che egli, adirato, non scateni venti furiosi, e grande tempesta». Così parlava, e il capo inveì contro di lui con parole di scherno «Sciagurato, bada al vento, e spiega con me la vela della nave manovrando tutti i cavi: a costui penseranno gli uomini. Io prevedo che egli verrà fino all’Egitto, o a Cipro, o fra gl’Iperborei, o più lontano, ma infine una buona volta ci rivelerà i suoi amici e tutte le sue ricchezze e i suoi parenti; poiché un dio ce lo ha mandato». Così dicendo issava l’albero e la vela della nave; il vento soffiò in piena vela, e i marinai, dai due lati, tendevano i cavi. Ma ben presto apparvero loro fatti prodigiosi.
Dapprima, sulla veloce nave nera, gorgogliava
vino dolce a bersi, profumato, da cui si effondeva un aroma soprannaturale: stupore
prese tutti i marinai, quando lo videro.
Subito dopo si distesero lungo il bordo superiore della vela
tralci di vite, da una parte all’altra, e ne pendevano abbondanti
grappoli; intorno all’albero si avviticchiava
una nera edera ricca di fiori, su cui crescevano amabili frutti;
e tutti gli scalmi erano inghirlandati. Essi allora, vedendo queste cose,
ordinavano al timoniere di guidare a terra la nave.
Ma il dio, sotto i loro occhi, nella nave, si trasformò in un leone
dallo sguardo pauroso e bieco: essi fuggirono a poppa
e intorno al timoniere dall’animo saggio
si fermarono attoniti: il dio, d’improvviso balzando,
ghermì il capo; e gli altri, evitando la sorte funesta,
come videro, si gettarono fuori tutti insieme, nel mare divino,
e diventarono delfini. Ma il dio ebbe pietà del timoniere:
lo trattenne, e gli concesse prospera sorte; e così gli disse:
«Coraggio, nobile vecchio, caro al mio cuore;
io sono Dioniso dagli alti clamori, che generò la madre
Semele, figlia di Cadmo, unendosi in amore con Zeus».
Salve, o figlio di Semele dal bel volto: non è possibile,
per chi si dimentica di te, comporre un dolce canto.
Traduzione di Cassola,da Inni omerici a cura di F. Cassola, Mondadori, 1975, 291 e segg.

Quando Dioniso scoprì il vino e i suoi effetti, decise di farlo conoscere a tutti gli uomini e con il suo corteo di ninfe, satiri, egipani e baccanti, chiamato Thiasos, intraprese un lungo viaggio intorno al mondo. Andò prima in Egitto, poi nella Siria; attraversò l’Asia, si spinse fino in India; nel viaggio di ritorno passò per la Frigia, la Tracia, in Beozia, in Argolide, nell’isola di Chio e finalmente nell’isola di Nasso, la più grande delle Cicladi. Quando Bacco giunse in Tracia il frastuono del suo culto con balli, canti e suoni di tamburi, arrivò alle orecchie del re del paese Licurgo; dubitando che si trattasse del rito bacchico si recò sul posto e nascondendosi vide le Menadi e i Satiri agitarsi follemente, li circondò e cominciò a lanciare frecce. Solo Bacco riuscì a scamparla gettandosi in mare, dove Teti lo accolse amichevolmente, gli altri furono fatti tutti prigionieri. La punizione non si fece aspettare; Licurgo impazzì e siccome per sfogare la sua rabbia stroncava tutte le viti che incontrava con un colpo di scure ammazzò il suo stesso figlio, scambiandolo per un ceppo. Tanta era la forza che la scure ricadde sui suoi piedi e lo ferì, alle sue urla di dolore le catene che tenevano legate i Satiri e le Menadi si sciolsero, e tutti si scagliarono contro Licurgo facendolo a pezzi.
Una sorte simile toccò a Penteo, re di Tebe e cugino di Bacco. Quando Dioniso si recò in Beozia, dove appunto regnava Penteo, non fu accolto molto bene dal cugino che per legami di parentela avrebbe dovuto ben favorire l’iniziazione al vino agli abitanti della città. Il re si irritò quando vide gli abitanti di Tebe, soprattutto le donne, abbandonare i proprio lavori per unirsi alle danze e festeggiamenti delle Menadi, correre con le fiaccole accese sui monti, nel pieno del delirio del baccanale; la stessa madre di Penteo si unì alle Menadi e il re per punire i suoi sudditi incatenò e fece prigioniero Bacco. Il dio scollò le spalle e le catene caddero, contemporaneamente la folgore di Zeus, per punire il sacrilegio,
incendiò la reggia di Penteo il quale, invece di chinarsi umilmente, si irritò ancora di più. Si recò nei luoghi del baccanale, rabbioso e ostinato, nel delirio le donne tra cui sua madre e le Menadi, si scagliarono su di lui e lo uccisero, poi le sue sorelle Ino e Autono e lo squartarono.
In realtà, l’unico dato comune fra tutti i miti è proprio il fatto che qualcuno – il re, le figlie del re, il popolo – si rifiuta di accogliere le orge. Significativo è il contrasto fra due versioni dello stesso episodio: la follia delle Pretidi. Essa è spiegata sempre come un castigo. Ma, quando l’episodio è inquadrato nei miti di Era, le eroine sono punite per aver oltraggiato il simulacro della dea; nella versione dionisiaca, la colpa consiste in una opposizione al nuovo culto. Il fatto che vari temi rituali siano – per quanto riguarda Dioniso – collegati sempre alla medesima idea, dimostra almeno che questa idea aveva antiche e salde radici. Tuttavia non si può affermare che l’orgiasmo fosse del tutto ignoto ai greci del II millennio. Se non altro, era noto nella Creta minoica (come appare dalle scene di danza estatica raffigurate su gemme e sigilli). I greci fecero propri molti aspetti della cultura minoica, anche prima del XV secolo, epoca in cui conquistarono l’isola. Un’ipotesi equilibrata è che la tradizione dei culti orgiastici, in origine largamente diffusa nell’area mediterranea, abbia attraversato in Grecia una fase di decadenza e di oscurità, e sia poi rifiorita per influssi esterni, provenienti secondo la ben fondata opinione degli stessi autori antichi, dalla Tracia e dall’Asia minore. Solo così, del resto, si può spiegare perché, fra i vari nomi della dea terra, abbia avuto tanta fortuna in Grecia un nome frigio come Semele. Il rinascimento dell’orgiasmo, comunque, deve aver avuto inizio già prima di Omero, perché nell’Iliade Dioniso è definito μαινόμενος (= in preda alla follia) e Andromaca è paragonata a una menade (VI 132, XXII 460). Non va poi trascurato il fatto che per Erodoto le orge dionisiache sono ormai un elemento caratteristico della cultura greca. Fra gli aspetti delle cerimonie orgiastiche è l’uso del termine Βάκχος. Esso forse, in origine, indicava solo i tralci o i rami di varie piante che gl’iniziati portavano; poi gl’iniziati stessi, i «baccanti». Le rappresentazioni teatrali si svolgevano durante le feste in onore di Dioniso, le quali avevano fin dall’antichità un’importanza panellenica e richiamavano i cittadini di tutta la Grecia. Le feste più importanti erano: le Piccole Dionisie (o Dionisie rurali), le Lenee, le Antesterie e infine le Grandi Dionisie..