
Terra di Russia, terra di Russia! io ti vedo: dalla mia incantevole, meravigliosa lontananza, io ti vedo. Tutto è povero in te, disordinato, inospitale; non rallegrano, non atterriscono lo sguardo gli arditi miracoli della natura, coronati dagli arditi miracoli dell’arte: le città con gli alti castelli dalle mille finestre, radicati sui dirupi; le pittoresche piante e edere radicate sulle case, fra lo scroscio e l’eterno vaporío delle cascate. Non si rovescia indietro la testa a guardare il sovrapporsi senza fine, nelle altezze, dei blocchi di pietra; non brillano attraverso gli oscuri archi gettati uno sull’altro, rivestiti di tralci di viti, d’edere e di milioni e milioni di rose selvatiche, non brillano in lontananza gli eterni profili dei monti radiosi, alzati agli argentei, limpidi cieli. Tutto è aperto, desolato e uniforme in te; come piccoli punti, come piccoli segni, visibili appena, spiccano tra le distese le piatte tue città: nulla che accarezzi o che affascini lo sguardo. Ma che inaccessibile, misteriosa forza è dunque questa che attira a te? Perché riecheggia e di continuo risuona all’orecchio, malinconica, come si diffonde su tutta l’ampiezza tua, da mare a mare la tua canzone? Che c’è in essa, in codesta canzone? Che cosa chiama così, e singhiozza e afferra il cuore? Che suoni son questi che morbosamente si insinuano e penetrano nell’anima, e s’attorcigliano al mio cuore? Terra di Russia! che cosa vuoi dunque da me? Quale inaccessibile legame sussiste fra noi? Che hai da guardarmi così, e perché tutto quello che c’è in te si rivolge a me con quest’occhi pieni di aspettazione?… E ancora pieno di stupore, rimango immoto, e già sul capo ho l’ombra di una nube minacciosa, gravida di piogge incombenti, e il pensiero ammutolisce dinanzi alla tua vastità. Forse qui, forse in te sorgerà uno sconfinato pensiero, giacché tu stessa sei senza fine? Non potrebbe qui aver l’avvento un eroe gigante, giacché c’è spazio abbastanza perché si sviluppi e si muova? E minacciosamente mi abbraccia la possente vastità, riverberandosi con terribile forza nel profondo del mio essere; d’una potenza arcana s’illuminano i miei occhi… Oh, sfolgorante, fascinosa, ignota al mondo sconfinatezza! Terra di Russia!…
– Bada, bada, imbecille! – gridò Čìčikov a Selifàn.
– Io ti piglio a sciabolate! – gridò, sopravvenendo al galoppo, un feld-jäger1 con certi baffi lunghi una spanna. – Non vedi, che un demonio ti strappi l’anima, che questa è una vettura del Governo? – E, come un miraggio, dileguò la trojka2 fra il rimbombo e la polvere.
Che forza strana, e ammaliante, e trascinante, e piena d’incantesimo in questa parola: viaggio! E com’è pieno d’incantesimo esso stesso, codesto viaggiare! […]

E Čìčikov non faceva che sorridere, scivolando via sul suo cuscino di cuoio: giacché gli piaceva, la velocità.
Già poi a quale russo non piace, la velocità? Volete che proprio alla sua anima, che aspira alla vertigine, all’abbandono, a dirsi tratto tratto: «Vada tutto all’inferno!» proprio alla sua anima essa non piaccia? Non piaccia essa, in cui si fa sentire un che d’esaltante e di meraviglioso? È come se una potenza ignota ti prendesse sull’ala con sé, e tu voli, e tutto vola: volano le pietre miliari, ti volano incontro i mercanti sulle sponde delle loro carrette, vola ai due lati il bosco colle cupe parate degli alberi e dei pini, colla scure che batte e la cornacchia che gracchia; vola via la strada chissà dove in precipite lontananza; e un che di pauroso spira da questo rapido balenìo, in cui non fa in tempo a delinearsi l’oggetto che precipita via: solo il cielo sopra la testa, e le nubi leggere, e trasparente fra mezzo la luna, esse sole sembrano immobili. Ah, trojka, uccello-trojka! chi ti ha inventato? Proprio vero, soltanto fra un popolo pieno di vita tu potevi nascere, in quella terra che non ama far le cose per scherzo, e liscia liscia s’è allargata su mezzo mondo – e andate un po’ voi a contare le miglia, finché non vi sbarbagli la vista. E tu non sei davvero un complicato apparecchio da viaggio, non viti di ferro ti tengono insieme: ma in quattro e quattr’otto, con nient’altro che accetta e scalpello, t’ha congegnato e messo in sesto l’abile mužík di Jaroslàvl’. Non in teutonici stivaloni da scuderia è il guidatore: tanto di barbone e di guantone, e sa il diavolo su che sta seduto; ma si solleva appena, e brandisce la frusta, e intona una cantilena – e già i cavalli turbinano via, i raggi delle ruote si son fusi in un unico, levigato disco, trema la strada, e grida di spavento il viandante impietrito, mentre quella vola via, via , via!… E ormai si vede appena, in lontananza, qualche cosa che fa polvere e trapana l’aria.

Non così anche tu, Russia, come un’ardita insorpassabile trojka, voli via? Fuma sotto di te la strada, rimbombano i ponti, tutto si distanzia e rimane indietro. Si ferma, colpito dal divino prodigio, lo spettatore: è un fulmine forse, lanciato giù dal cielo? Che significa, questa terrificante corsa? E quale ignota forza è racchiusa in questi cavalli, ignoti al mondo? Ah, cavalli, cavalli… che cavalli siete voi! I turbini dimorano forse nelle vostre criniere? Un acuto orecchio vibra forse in ogni vostro nervo? Udita appena dall’alto la nota canzone, tutti all’unisono hanno proteso i petti di bronzo, e quasi senza toccare cogli zoccoli terra, non si disegnano più che in linee allungate, trasvolanti a mezz’aria, e divora lo spazio la trojka, tutta infusa dell’afflato di Dio!… Russia, dove mai voli tu? Rispondi.
Non risponde. Stupendo lo squillo si spande dalle sonagliere; rimbomba e si muta in vento l’aria squarciata; vola indietro tutto quanto è sulla terra, e schivandola si fanno in disparte e le dànno la strada gli altri popoli e le altre nazioni.
Da: le Anime Morte di di Nikolaj Gogol’
(traduzione di A. Villa, Einaudi 1994)