
« Se, infatti, le streghe e gli stregoni che si danno convegno la notte del giovedì per darsi a «salti», «spassi», «nozze» e banchetti, evocano immediatamente l’immagine del sabba—quel sabba che i demonologi avevano minuziosamente descritto e codificato, e gli inquisitori perseguitato almeno dalla metà del ‘400—nondimeno esistono, tra i raduni descritti dai benandanti e l’immagine tradizionale, vulgata del sabba diabolico, differenze evidenti. In questi convegni, a quanto sembra, non viene reso omaggio al diavolo (alla cui presenza, anzi, non si accenna neppure), non si abiura la fede, non si conculca la croce, non si fa vituperio dei sacramenti. Al centro di essi vi è un rito oscuro: streghe e stregoni armati di canne di sorgo che giostrano e combattono con benandanti provvisti di rami di finocchio. Chi sono questi benandanti? Da un lato, essi affermano di opporsi a streghe e stregoni, di ostacolarne i disegni malefici, di curare le vittime delle loro fatture; dall’altro, non diversamente dai presunti avversari, asseriscono di recarsi a misteriosi raduni notturni, di cui non possono far parola sotto pena di essere bastonati, cavalcando lepri, gatti e altri animali. »
—Carlo Ginzburg, «I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento», pp. 7-8


I Benandanti Furono dei maghi e guaritori soggetti a persecuzione inquisitoriale nel Friuli del Cinque-Seicento. La credenza popolare attribuiva al benandante, nato ancora avvolto nel sacco amniotico (il che era considerato benaugurante), la capacità di uscire dal corpo in spirito per combattere contro streghe e creature diaboliche che minacciavano la fertilità dei campi. Queste battaglie notturne si svolgevano nelle stagioni delle quattro tempora e i benandanti combattevano con rami di finocchio contro streghe e stregoni armati di canne di sorgo. Se i Benandanti vincevano il raccolto sarebbe stato propizio, altrimenti nefasto. I Benandanti sono stati al centro di un noto studio di Carlo Ginzburg. Ginzburg ha ravvisato nei Benandanti i segni della sopravvivenza nella religione popolare di antichi culti della fertilità di origine pagana ed ha avanzato un accostamento con lo sciamanesimo.
Inoltre ha posto l’accento sulla progressiva trasformazione “negativa”, indotta dall’azione inquisitoriale, della percezione popolare del benandante (e della percezione del benandante di se stesso), dapprima identificato in uno stregone e guaritore benefico quindi mutatosi in un adoratore del demonio, così come le streghe che combatteva. Sul tema è ritornato Franco Nardon con un importante volume pubblicato nel 1999, fondato su una più vasta e attenta analisi delle fonti rispetto a Ginzburg, mettendo fortemente in discussione l’impianto generale delle tesi di quest’ultimo. Nardon, che ha esaminato anche la seconda metà del Seicento (periodo non considerato dall’indagine di Ginzburg), ha inquadrato l’attività guaritrice e contro-stregonica dei Benandanti nel contesto sociale e culturale del Friuli del XVII secolo.

Dall’indagine di Nardon risulta che, al contrario di quanto sostenuto da Ginzburg, non avvenne nessuna mutazione dell’immagine dei Benandanti da guaritori e difensori dei raccolti a stregoni malefici e servitori del demonio: anzi proprio la documentazione della seconda metà del Seicento rivela che i Benandanti ancora erano consapevoli della loro funzione benefica e anti-stregonesca (e come nemici delle streghe e difensori del raccolto continuavano ad essere considerati nell’immaginazione popolare). Semmai furono gli interessi degli inquisitori a cambiare: l’interesse verso il sabba e la stregoneria diabolica mano mano scemò fino a scomparire nella seconda metà del Seicento e l’equiparazione tra inquisitori e streghe non sarebbe stata altro che una “forzatura” di alcuni inquisitori particolarmente ossessionati dal sabba diabolico e convinti della sua esistenza (non a caso la documentazione della seconda metà del Seicento ci restituisce l’immagine del benandante come guaritore e mago benefico). Nella ricostruzione di Nardon risultano ridimensionati anche l’accostamento tra benandanti e sciamani e l’insistenza sui riti di fertilità come chiave di lettura univoca del fenomeno, tematiche care a Ginzburg, il quale sarebbe stato troppo condizionato nelle sue interpretazioni da sue premesse aprioristiche esterne al fenomeno storico indagato in sé. Al centro del libro l’incontro di due mondi totalmente alieni: gli inquisitori della chiesa, uomini colti, dallo sguardo affinato dall’odio, istruiti all’interno di una cultura profondamente articolata sulla verbalità e sulla scrittura, sulla logica, su un sapere tradizionale che è stato patrimonio dell’occidente. Dall’altro lato i Benandanti, uomini indicati collettivamente con questo termine, uomini che riferivano fatti prodigiosi e totalmente incomprensibili.
Uomini ignoranti, incapaci di leggere di esprimersi con il linguaggio raffinato degli inquisitori, uomini dediti a umili mestieri, riferivano come di notte abbandonassero il proprio giaciglio per andare a combattere, in volo, armati di mazze di finocchio, contro stregoni armati di canne di sorgo che sciamavano volando sui campi coltivati. (….)

I benandanti tra inquisitori e streghe.

Fra 1575 e 1675 i benandanti erano stati decretati eretici dalla Santa Inquisizione nonostante si trattasse di presunti buoni maghi combattenti i sabba delle streghe. I Benandanti accusati cercarono nella loro difesa dalle accuse di far riconoscere la netta distinzione fra le loro azioni e quelle malefiche delle streghe sostenendo che essi combattevano in nome della fede in Cristo le malvagità che le streghe infliggevano ai villaggi ed ai loro raccolti e insistendo che soltanto i loro poteri potevano proteggere i poveri contadini. Era difficile che la Chiesa accettasse questa distinzione riconoscendo il ruolo positivo dei benandanti che si rifacevano a credenze pagane; tuttavia, un membro della sacra inquisizione riconobbe che:«…È stato dichiarato che dopo aver apposto delle formule magiche su di una mano di un popolano a protezione delle streghe e dei demoni gli atti nocivi del diavolo sono cessati, d’altro canto essi, come i loro presunti avversari demoniaci, hanno preso parte a riunioni misteriose (circa le quali non vogliono parlare neanche sotto tortura), dove venivano utilizzati lepri, gatti e ad altri animali.» Alla domanda dell’inquisitore su chi gli avesse insegnato a entrare in questa compagnia di benandanti, il Gasparutto risponde: «L’angelo del cielo… di notte, in casa mia, et poteva essere quattro hore di notte sul primo sonno… mi apparse un angelo tutto d’oro, come quelli delli altari, et mi chiamò, et lo spirito andò fuori… Egli mi chiamò per nome dicendo: “Paulo, ti mandarò un benandante, et ti bisogna andare a combattere le biade…” Io gli risposi “Io andarò, et son obediente”» 1
Per evitare le condanne della Chiesa i benandanti accusarono gli stessi contadini di compiere riti di stregoneria: fu quello un inutile tentativo per discolparsi che servì soltanto a far decadere la loro reputazione agli occhi del popolo. Verso la fine del Seicento tuttavia, l’Inquisizione allentò le sue inchieste sui benandanti dovendo, con la diffusione della Riforma, preoccuparsi meno di stregoneria e concentrarsi invece sull’eresia. I benandanti con l’andar del tempo furono identificati dalla Chiesa come stregoni affiliati con il demonio e quindi perseguibili come idolatri eretici. Nonostante le prove portate a carico delle loro colpe, nessuno dei processi si concluse con una esecuzione capitale dei benandanti ma la loro buona fama popolare si dissolse completamente. Tra il 1575-80 e il 1620 circa il mito dei benandanti «agrari» è documentato, con le caratteristiche essenziali già descritte, in tutto il Friuli. E’ una fase solo apparentemente statica della vicenda che stiamo delineando, che prepara il periodo successivo di rapida, quasi violenta trasformazione . Nei primi mesi del 1583 perviene al Sant’Uffizio di Udine una denunzia contro Toffolo di Buri, un «armentaro» di Pieris, paese vicino a Monfalcone – al di là dell’Isonzo, e pertanto fuori dai confini naturali del Friuli, ma pur sempre sottoposto alla giurisdizione spirituale della diocesi di Aquileia. Questo Toffolo «afferma di essere benandante, et che per ispatio d’anni ventotto in circa è necessitato di andare ogni quattro tempora in compagnia d’altri benandanti a combattere contra li strigoni et streghe (lasciando il
corpo sul letto), in ispirito, ma vestito di quelli istessi habiti che portar suole il giorno». Anche Toffolo, dunque, si reca ai convegni «in spirito», e anche per lui l’atto di «andar fuori» è come un morire: «quando è astretto d’andare a combattere gli viene un sonno profondissimo, e dormendo con la pancia in su si sente nel uscir del spirito mandar fuori tre gemiti, come sogliono spesse fiate fare quelli che moiono». Lo spirito esce a mezzanotte, «e sta fuori del corpo tre hore tra l’andare, tra il combattere et il ritornare a casa»; se non esce a tempo, Toffolo viene aspramente bastonato. «Detti benandanti, streghe et strigoni sono al numero di tre mila et più, i quali vengono da Capo d’Istria, Muggia, Trieste et territorio di Monfalcone, e altri luoghi del Carso». I benandanti («alcuni a piè et alcuni a cavallo») sono armati di «virgulti di fenocchi», mentre gli stregoni «portano seco per combattere quei legni coi quali si suole nettare i forni quando si vole cocere il pane; le streghe poi combattono con le canne gargane, alcune delle quali cavalcano galli, alcune gatte, et alcunecani et becchi… » e «combattendo dànno di grande bastonate alli benandanti con esse canne». Fin qui la concordanza con gli elementi emersi dalle confessioni dei benandanti cividalesi è assoluta. Ma un mito popolare, non agganciato a una qualsiasi tradizione colta e pertanto non influenzato da fattori di unificazione e omogeneità quali erano, in questo periodo, prediche, scritti a stampa, rappresentazioni teatrali, finiva inevitabilmente per calamitare apporti individuali e locali d’ogni genere, testimoni eloquenti della sua vitalità e attualità. Una variazione di questo tipo s’incontra anche nella denunzia contro Toffolo. Egli ha affermato, infatti, che «anco i Turchi, gli Hebrei et gli Heretici in numero infinito fanno passaggio et combattono come si fa negli eserciti, ma separatamente dalle sette di sopra nominate», cioè benandanti, streghe e stregoni. E’ un elemento singolarissimo, forse diffuso nel territorio di
riconoscimento della scarsa importanza del caso, affidato all’inquisitore perché lo portasse a termine quando lo credesse opportuno – cioè mai. Mancava, insomma, tra benandanti e inquisitori, un piano d’incontro reale, sia pur fatto d’ostilità e di repressione. Finché fu possibile i benandanti vennero ignorati. Le loro «fantasticherie» rimanevano chiuse in un mondo di bisogni materiali e emotivi che gli inquisitori non comprendevano, né cercavano di comprendere ….Dunque, i combattimenti tra queste anime staccatesi dai corpi esanimi «come fumo» (una volta la moglie di Menichino aveva creduto che il marito «fusse morto in letto, perché non si moveva niente») e i morti-stregoni, avvenivano, per i benandanti,nel grande prato dove tutti i morti, alla fine dei tempi, sarebbero convenuti – la valle di Josafat. A un’ulteriore domanda provocatoria dell’inquisitore («se quando andava fuori in fumo come lui dice, si ongeva avanti con alcuno unguento o olio, o se diceva alcune parole…»), Menichino, come abbiamo già anticipato, dopo una sdegnosa risposta negativa ammette di essersi unto «con l’olio de la lume», su suggerimento del Tamburlino. Ma dopo questa prima ammissione, Menichino nega di aver fatto al Tamburlino «promessione o giuramento alcuno», come gli suggerisce l’inquisitore. No, dice il benandante: «io gli risposi che se sarebbe stato il mio pianeto sarei andato, et se non fosse stato non sarei andato». Ciò era accaduto quindici o sedici anni prima, una sera che Menichino e il Tamburlino camminavano da soli «andando in fila alla Tisanotta, cioè a sollazzo, et fu d’inverno, per strada, di notte doppo cena». Non è stato invitato da altri ad uscire la notte: ma sa che Menico Rodaro è benandante, e ne ha parlato con lui («una sera andando in fila, addimandandoli io se era buono andante,perché il Tamburlino me lo haveva detto, et lui mi rispose: “Sì che io sono beneandante”»); anche lui gli ha confidato di andare a combattere per la fede. Di altri benandanti sa soltanto il nome. Ha parlato di queste cose con molti, «ragionando così la sera in fila, come riconoscimento della scarsa importanza del caso, affidato all’inquisitore perché lo portasse a termine quando lo credesse opportuno – cioè mai. Mancava, insomma, tra benandanti e inquisitori, un piano d’incontro reale, sia pur fatto d’ostilità e di repressione. Finché fu possibile i benandanti vennero ignorati. Le loro «fantasticherie» rimanevano chiuse in un mondo di bisogni materiali e emotivi che gli inquisitori non comprendevano, né cercavano di comprendere ….Dunque, i combattimenti tra queste anime staccatesi dai corpi esanimi «come fumo» (una volta la moglie di Menichino aveva creduto che il marito «fusse morto in letto, perché non si moveva niente») e i morti-stregoni, avvenivano, per i benandanti,nel grande prato dove tutti i morti, alla fine dei tempi, sarebbero convenuti – la valle di Josafat .

A un’ulteriore domanda provocatoria dell’inquisitore («se quando andava fuori in fumo come lui dice, si ongeva avanti con alcuno unguento o olio, o se diceva alcune parole…»), Menichino, come abbiamo già anticipato, dopo una sdegnosa risposta negativa ammette di essersi unto «con l’olio de la lume», su suggerimento del Tamburlino. Ma dopo questa prima ammissione, Menichino nega di aver fatto al Tamburlino «promessione o giuramento alcuno», come gli suggerisce l’inquisitore. No, dice il benandante: «io gli risposi che se sarebbe stato il mio pianeto sarei andato, et se non fosse stato non sarei andato». Ciò era accaduto quindici o sedici anni prima, una sera che Menichino e il Tamburlino camminavano da soli «andando in fila alla Tisanotta, cioè a sollazzo, et fu d’inverno, per strada, di notte doppo cena». Non è stato invitato da altri ad uscire la notte: ma sa che Menico Rodaro è benandante, e ne ha parlato con lui («una sera andando in fila, addimandandoli io se era buono andante,perché il Tamburlino me lo haveva detto, et lui mi rispose: “Sì che io sono beneandante”»); anche lui gli ha confidato di andare a combattere per la fede. Di altri benandanti sa soltanto il nome. Ha parlato di queste cosecon molti, «ragionando così la sera in fila, come

(1) dal sito Axis Mundi