FRANCOIS VILLON, SECONDA PARTE

Così Fleur Vignon in “Francois Villon et la marginalité”: “Vanno presi in considerazione due livelli di riflessione: la marginalità di François Villon come uomo e come poeta. Il punto cruciale sarà stabilire se François Villon abbia subìto o consapevolmente assunto su di sé questa marginalità». Villon parte dal suo “status” di poeta: “Un poeta che rifiuta le correnti letterarie in voga come quella della poesia corre il rischio di essere tentato da un registro poetico che è destinato ad essere marginale. Di conseguenza ci si interroga sul paradosso di un autore che, praticando uno stile letterario marginale, (e che corre quindi il rischio di non essere letto), si preoccupi però della sua integrazione nel mondo letterario. Se si tenta di leggere l’opera di Francois Villon dal punto di vista della marginalità, ecco che sorgono all’improvviso tutte le sue ambiguità di poeta. Nella trentesima ottava del Lais, Villon evoca i clochards per i quali non prova alcuna pietà, dal momento che godono della protezione della legge.” (4) Si incontrano nell’opera dei Francois Villon numerose figure marginali, qui vengono cantati i mendicanti:
Et aux gisans soubz les estaulx
Chacun sur l’eul une grongnée,
Trambler à chiere renfrongnée,
Megres, velus et morfondus,
Chausses courtes, robe rongnée.
“La perifrasi di “gisans soubz les estaulx” porta un’immagine concreta di questa povera gente che trova riparo nel mercato vuoto, sotto le bancarelle dei mercanti. Il Lais è tutto scandito dal segno dell’inverno, vista anche la sua ambientazione nel Natale del 1456. La scelta di questa stagione non è scontata e permette una evocazione più convincente della situazione dei disadattati. Infatti l’evocazione del freddo aiuta ad evidenziare il problema principale della stagione invernale, per chi non ha casa, e quindi le donazioni di vestiti. Ma non c’è nulla di originale nel visibile disprezzo del poeta, che prende a pugni ciascuno di questi vagabondi e dei loro vestiti che non li terranno al caldo” (4). L’opera di Bronislaw Geremek (1) ha descritto l’animosità (della popolazione) suscitata dagli indigenti alla fine del Medioevo, in particolare a causa del sospetto che i mendicanti spesso simulassero le loro infermità, come di frequente facevano. Il brano di cui sopra tratto dal Lais ci mostra dunque che Villon reagisce come i suoi contemporanei di fronte ai poveri” Ma Francois Villon ha anche detto:
All’Ostel-Dieu non voglio lasciare
Nulla, né ai poverelli degli ospizi.
Ma non mi va su questo di scherzare,
Patiscono già tanti supplizi.
Manderò il resto dei miei vizi:
I mendicanti avranno la mia oca;
Si porti agli altri un poco d’ossa;
Va dato qualcosa a chi ne ha poca.
L’operazione di dissezionare le categorie “emarginate” del Lais porterebbe a giudicare Villon come un poeta oltre che sprovvisto di una sua dimensioni morale, alla base delle sue inclinazioni “morali” nei riguardi di una categoria abitata anche da lui stesso mi sembra una follia, . In primis perchè le contraddizioni esistono nell’animo umano e ancora più in quello di un poeta, senza contare il fatto che è probabile che lo stesso Villon ne fosse più che consapevole e anzi, che poprio da queste contraddizioni “in tensione continua” venisse sprigionata la sua dimensione poetica, da cui traeva ispirazione e potenza immaginale. In seconda battuta, è come corollario della prima, è semplicemente ridicolo giudicare un poeta (ma anche un filosofo) attraverso delle (arbitrarie) categorie morali. Terzo, che ai tempi di Villon gli “emarginati” non fossero tutti uguali e che non si trovassero sotto lo stesso ombrello di marginalità mi sembra evidente. Il concetto di emarginato come noi lo intendiamo non esisteva nella Francia del XV secolo. Quindi perchè “discriminare” isolando una categoria nella categoria utilizzando un metodo e una visione contemporanea? Altra sciocchezza. Quello che s’intendeva nel novecento e si intende ancora ai nostri giorni è una denominazione spuria, impura, solo recentemente sprovvista di alcuni accenti polemici (emarginato è scandito al participio passato, questa “trasformazione verbale” fa trasforma una categoria impotente, oggetto di maltrattamenti ed esclusione. Emarginato è anche una figura quasi scevra da colpa, purificata da un certo cattolicesimo e ribaltata e dilatata da accenni quasi messianici da alcune posizioni politiche recenti. Tuttavia in qualche modo la società continua ad istillare nella parola delle valenze di demerito, a seconda dei periodi storici, frutto di responsabilità e quindi di colpa. Nella società ultra-liberista del capitalismo avanzato (uno potrà dire anche capitalismo frollato oppure esangue) ha un’ideologia dove nessuno apparentemente è messo in disparte perchè le possibilità vengono offerte sistematicamente a tutti, nessuno escluso. Quindi l’emarginato, va da sè, è qualcuno che si è autoescluso per insipienza, ignoranza, pigrizia, viltà etc. Nella società post moderna
cade il velo della pietà e quel moralismo residuo, anche di matrice religiosa, cosicché chi finisce ai margini non è vittima delle circostanze o dei rovesci della fortuna, non è più zimbello del destino ma “uno che se l’è cercata” ed è diventato un parassita per sua colpa. Così l’emarginato si trascina appresso questa sua colpa da secoli se non millenni, una sorta di peccato originale (per la società). (Mentre) I nuovi poveri americani si organizzano la povertà dormendo nelle auto o nelle tende, racimolando qualcosa da cucinare e mangiare, lavandosi e mettendosi vestiti puliti, pulendo dove dormono e vivono, pensando che prima o poi, grazie a i loro riti, troveranno lavoro ed usciranno dal loop della povertà, ancora fervidi credenti di quel sogno sgonfio che è il sogno americano, del quale non si credono scarti, ma cittadini ancora “attivi”, cercando di riparare il proprio involucro sbattuto dai venti. Dietro o davanti ad ogni tenda c’è la bandiera americana. Secondo Foucault le disposizioni di legge riguardo ai vagabondi e ai senzatetto si sono ribaltate attorno al cinquecento, con l’avvento dell’Ancienne Regime, quando si incominciò a non tollerare più i vagabondi. Legalmente, il vagabondo era spesso uno sconosciuto nella sua posizione, che non aveva passaporto o altro certificato di identità o buon carattere, e non poteva essere “confessato” (riconosciuto) da qualcuno ( parroco di un’altra parrocchia, ecc.). Il vagabondaggio fu così pesantemente represso; prima queste categorie vennero “isolate” e ricoverate negli ospedali e negli alberghi dei poveri; più tardi vennero condotti in prigione, contribuendo così al circolo vizioso di emarginazione e criminalità. il reato di vagabondaggio non è scomparso dal diritto francese fino al 1992, mentre in Italia è ancora vigente. Dall’Ancienne Regime in poi l’emarginato è soprattutto colui che non poteva essere incasellato nella nuova disposizione del mondo, in quel dispiegamento anche architettonico della città nuova e nel casellario della società civile. Nel medio evo era frequente incontrare pellegrini che pernottassero nei parchi cittadini o che dormissero praticamente da qualsiasi parte, che occupassero le polverose strade di città e quelle delle campagne. Nessuno si sarebbe mai sognato di incasellarli come “emarginati” nè di trattenerli perchè sprovvisti di documenti o perchè vagavano senza meta. Dall’Ancienne Regime in poi vennero respinti da posti divenuti “off limits” che la pulizia ed il decoro cittadino avevano reso casellari, non più luoghi di socializzazione ma”spazi vuoti” inabitabili, solo da guardare.

Nel tempo, lungo il millennio che va dal V al XV secolo, la posizione dei poveri nella società è andata modificandosi. “Dapprima membri sofferenti ma integrati delle piccole comunità. Poi soggetti estranei e pericolosi. Viene operata allora la differenza tra “poveri veri”; lavoratori incapaci di provvedere al proprio sostentamento, e “poveri falsi”, ossia vagabondi, parassiti, emarginati di ogni genere”. (Michele Mollat, i poveri nel Medioevo). Diciamo che il punto è: perchè mai Villon avrebbe dovuto avere una sensibilità così particolare da fargli percepire i barboni e/o i poveri mendicanti come categoria non da disprezzare ma da salvare? Di questo atteggiamento non c’era traccia tra i contemporanei di Villon, per cui colpisce che qualcuno si stupisca o peggio, che condanni un simile atteggiamento; stupisce anche che in questa disanima non sia stata tenuta in considerazione l’età di Villon nè la sua esperienza al momento del suo soggiorno a Parigi.
Autre type de marginaux : les malfaiteurs en tous genres et les gens du spectacle évoqués dans la première et la deuxième strophe de la « Ballade de bonne doctrine ». Le poète s’associe à tous ces individus, puisqu’il enchaîne ainsi, après la ballade :
« A vous parle, compains de galle..” ….. «Qui estes de tous bons accors. »
Le nom compains traduit le sentiment qu’a François Villon d’appartenir à cette frange marginale de la population qui, par ses actes illicites, risque le gibet. Dans la ballade, le terme ordure correspond à la voix de la société bien pensante qui méprise les infamies de ces marginaux : « De telz ordures te reculles ? »

Ma esiste un altro genere di marginali: i criminali di ogni genere e la gente di spettacolo, citate nella prima e nella seconda strofa della “Ballata della buona dottrina”. Il poeta si associa a tutti questi individui, poiché continua così, dopo la ballata:
«Compagni di baldoria a voi dico,
Non per l’anima ma per il corpo;
Fateci caso al ceruleo colorito
Che prende il viso a chi è già morto;
“Il nome “compains” riflette il sentimento di appartenenza di François Villon a quella frangia marginale della popolazione che, con i suoi atti illeciti, rischia il patibolo. Nella ballata, il termine spazzatura, lordura corrisponde alla voce della società animata da buone intenzioni ma che disprezza le infamie di queste persone emarginate.
Nella seconda strofa della “Ballade de merci” troviamo le figure di teppisti e giocolieri . Il poeta quindi non li disprezza allo stesso modo dei vagabondi; ladri e istrioni, al contrario, sono tra le persone a cui chiede perdono. Ancora altre formule segnano la simpatia di François Villon per i criminali, come il verbo consolare nell’ottava CLV del Testamento: Item, riens aux Enffans Trouvés, Mais les perd [s] fault que consolle”. Nella “Belle leçon aux Enfants perdus”, (“Bella lezione ai ragazzi traviati”) l’aggettivo beaulx e il possessivo determinante mes esprimono anche una certa tenerezza da parte dell’autore: )
«Figlioli cari non dovreste lasciare
La più bella rosa che portate;
Voi che sapete come arraffare
L’atteggiamento del poeta non è dunque lo stesso verso tutti gli emarginati. (4)
E’ pur vero che parte di tale fascino è legato proprio a quelle difficoltà linguistiche che ne rendono ardua la lettura a quelle ambiguità verbali, volute dall’autore o dovute alla distrazione e all’intervento ipercorrettivo degli amanuensi o dei tipografi, che li rendono in qualche caso incomprensibili, a quelle allusioni a episodi personali o famigliari o ambientali di cui si è cancellata o intorbidita la memoria. Così pure è vero che un’altra larga parte di quel fascino è legata all’interesse per l’uomo Villon, l’irregolare, il diverso, per il Villon quale si configura nei documenti giudiziari e nell’opera, due fonti forse troppo disparate perchè possano comporsi e integrarsi in una figura unitaria. Interesse per l’ambiente e la società in cui l’uomo, il Villon storico quale emerge dal testo, vive ed opera. Interesse per i tempi difficili, quel tramonto o quell’autunno del medioevo, di per sè affascinante nell’evocazione di storici illustri che le due metafore correnti, che pure alludono alla conclusione di un ciclo, e forse di una decadenza, contribuiscono ad illuminare di colori intensi. (8)

L’esperienza della prigione
Fratelli umani che dopo noi vivrete,
non siate verso noi duri di cuore,
ché, se pietà di noi miseri avete,
Iddio ve ne saprà ricompensare.
Qui ci vedete appesi, cinque, sei:
e la carne da noi troppo nutrita,
oramai è divorata e imputridita,
noi, ossa, diveniam cenere e polvere.
Del nostro mal nessuno se ne rida;
ma Dio pregate che ci voglia assolvere
Da: il ballo degli impiccati di Francois Villon
Questa moltiplicazione degli scritti dei prigionieri conservati, se non deve tutto alle circostanze della conservazione dei manoscritti, forse è in parte dovuta alla diffusione dell’esperienza della cattività nel XIV secolo e XV secolo, che sembra corroborare la fioritura di testi destinati a consolare le vittime di prigionia, prigionieri stessi o mogli di prigionieri solitari. Molti di questi gli scrittori sono stati prigionieri oppure ostaggi durante la Guerra dei Cent’anni. Altri sono vittime della relativa diffusione dell’uso della reclusione nel diritto penale del tardo medioevo, sia che si tratti di diritto ecclesiastico o di diritto secolare. Ma François Villon è il solo viene perseguito per atti di legge comune. Il famoso poeta, nato nel 1431 o 1432 a Parigi sotto il nome di François de Montcorbier et des Loges, è stato detenuto almeno due volte, la prima nel 1461 come prigioniero del vescovo di Orleans, Thibault d’Aussigny, a Meung-sur-Loire, dove avrebbe composto un’Epistola ai suoi amici, poi allo Châtelet a Parigi nel 1462, alla quale senza dubbio suo domanda all’impiegato dello sportello 15 : Ma sappiamo che dovette fare i conti con la giustizia nel 1455, per una rissa nel recinto del chiostro di Saint-Benoît che provocò la morte di uno dei suoi compagni, e nel 1456, per un furto impiegato presso il collegio di Navarre. (3)

Certo, la prigione è ancora, come dal 12esimo secolo in avanti, un motivo allegorico, un luogo emblematico, della poesia d’amore e del lirismo cortese – la prigione separa gli amanti, la separazione è prigione dell’amante – È il caso di Jean de Garencières, Charles d´Orléans e René d´Anjou, così come l’apertura del Lais dello stesso François Villon. L’allegoria cortese si rivitalizza con gli accenti lirici degli autori che hanno veramente vissuto la prigionia. Ma la maggior parte dei testi dei prigionieri in realtà fornisce un lamento e una meditazione sull’esperienza della reclusione. La prigione è la “valle oscura” dove si è “immersi nella tribolazione” e il “lago di perdizione” per il prigioniero di Loches. È il fango e la sporcizia reale dell’avversità, dove la fortuna non soccorre più; Valle, lago, fango, profondità, queste immagini di angoscioso vuoto sono associate all’inferno nel tardo Medioevo. È anche il “foss”, un luogo “ort umbragé et vieulx” nella ballata di un prigioniero anonimo, la prigione tenebrosa in un’altra ballata, mentre un terzo prigioniero si definisce “enclos en obscur entretien” . François Villon ha evocato i suoi luoghi di prigionia a tratti, in particolare nel Testamento cattività: “en ung bas – non en ung hault , en fosse giz , bas en terre”. Si dice anche che si ritiri come un povero cane rintuzzato in un angolo. Queste menzioni, in un autore molto laconico, evocano una doppia profondità, verticale e orizzontale, essendo il corpo del prigioniero percepito come essere in fondo. L’oscurità, la putrefazione, la sporcizia, il buio e la profondità sono quindi associati alla prigione in questi testi. Altri autori aggiungono i ‘tormenti’ della prigione, per completare un quadro che modella la prigione terrena sull’inferno. A queste descrizioni del luogo di confino come un inferno risponde un’evocazione degli stati dell’anima rinchiuso, che oscilla tra “disagio”, estraniamento e malinconia. (3)
Estelle Doudet (Villon et les Réthoriqueurs: mythologie comparée de l’automne du Moyen Age, pp. 219-233) ricostruisce i legami che hanno unito le fortune di Villon e dei Réthoriqueurs, a partire dai Robertet che furono i primi a sottrarre la figura di Villon al mito del «bon follastre», fino al xix secolo, epoca in cui il personaggio di Gringoire nelle opere di Hugo e Théodore de Bainville suscita un rinnovato interesse sia per il poeta che per la Grande Réthorique. Il più importante tra coloro che contribuirono al mito di Villon è però senza dubbio Clément Marot; la genesi della sua edizione delle Œuvres de Françoys Villon (1533) è l’oggetto della comunicazione di Claude Thiry (Marot, éditeur de Villon, pp. 281-290), che si interroga soprattutto sul testo di cui l’editore si è servito come base, ipotizzando l’esistenza di un manoscritto oggi perduto. La produzione di Henri Baude, poeta meno conosciuto, ma che può ritenersi un emulo di Villon, è al centro del contributo di Marie Bouhaïk-Gironès (François Villon et Henri Baude, pp. 237-247), secondo la quale i punti di contatto tra i due poeti andrebbero ricercati nella cultura della Basoche, che diede vita a una letteratura popolare incentrata su temi triviali, ma nobilitata da sofisticati giochi linguistici. (1)

La studiosa Jane Taylor ci fornisce due idee chiave su Francois Villon e il contesto letterario dove si muoveva. Prima di tutto, di particolare rilievo è la sua affermazione che Villon non era lo scrittore emarginato e reietto che la critica moderna aveva voluto che fosse. Allo stesso tempo, insiste che quei poemi della sua opera che spesso vengono lasciati in ombra in quanto giudicati noiosi, tipici del suo tempo ma che sono di fatto in linea con il livello del suo lavoro. Secondariamente, ed è un argomento fondamentale che prova la prima argomentazione — un’opinione di segno opposto alle idee prevalenti sull’argomento — e cioè che la poesia del quindicesimo secolo sia costituita da poeti privi di ispirazione che si limitano ad illustrare il loro “savoir faire” attraverso i tecnicismi di un un ambiente letterario stagnante. Ne è la prova, lei sostiene, che sia il prodotto di una comunità di scrittori informati impegnati nelle conversazioni e dibattiti con il loro contemporanei così come con i loro predecessori, inoltre Villon participò interamente a tali pratiche. Per provare che i poeti del quindicesimo secolo fossero impegnati in conversazioni e dibattiti con i loro contemporanei e i loro predecessori, la Taylor fornisce un introduzione generale alle pratiche poetiche del tempo, concentrandosi in particolare sul dibattito che era scaturito dalla Belle Dame sans merci di Alain Chartier e sull’influenza che il Roman de la Rose aveva avuto sulla letteratura tardo medievale. A prova di ciò, ossia che i poeti del quindicesimo secolo fossero compresi in un confronto con i loro contemporanei così come con i loro predecessori, la Taylor esamina le prassi poetiche del tempo. Una volta sviluppate, ambedue le spiegazioni portano facilmente a un’analisi più da vicino dei molti poemi meno noti o meno apprezzati provenienti dal Lais e dal Testament. Sebbene ciò possa sembrare all’inizio un compito abbastanza semplice, ci accorgiamo quasi subito che per comprendere appieno il significato delle ottave contenute nelle sue ballate è assolutamente necessario diventare un “lettore informato”, e con ciò la Taylor intendeva un lettore capace non soltanto di riconoscere le altre produzioni letterarie che influenzarono Villon, ma anche in grado di intercettare in che modo Villon le aveva trasformate per comunicare con il suo materiale originario. Di frequente riferisce di un “pubblico informato” della cui esistenza nel XV secolo, la Taylor è certa, benchè non riesca a fornire nessun esempio concreto a prova della sua esistenza. Ciononostante, ci guida in maniera accorta e meticolosa a scorgere le associazioni che un pubblico così esperto sarebbe stato in grado di fare (….. ) E’ la nostra insistenza anacronistica sull’importanza dell’originalità che ci ha proibito di capire il vero valore della poesia del tempo di Villon. Invero, come la Taylor ci ricorda, nel quindicesimo secolo i poeti non venivano biasimati per “rubare” o prendere in prestito dei materiali o idee dai testi vernacolari dei loro contemporanei; al contrario, venivano ammirati quando riuscivano introdurre delle manipolazioni sottili e “adatte” di quegli elementi riconoscibili per trasmettere una specifica argomentazione o critica. Una visione ravvicinata di brani dei poemi di un nutrito gruppo di autori come Martin Le Franc, Alain Chartier, Achille Caulier – per citarne alcuni – ci può dare un’idea di fino a che punto queste opere fossero connesse tra loro nelle tematiche così come nella scelta di schemi di rime, campi lessicali, forma, ecc.. Diventa ovvio che questi poeti non si limitavano soltanto a riciclare i vecchi testi per mancanza di ispirazione, ma che di fatto si confrontavano con essi – vuoi per commentarli o, più spesso, criticarli per la loro appartenenza a diversi punti di vista sociali o politici. Sorprendentemente, “Villon, come qualsiasi altro poeta del tardo Medioevo, mobilizza questo senso di eccitazione: in altre parole, non è Villon l’emarginato, il genio esiliato che tanti manuali di letteratura tendono a rimarcare drammatizzando la sua figura. E’ sconcertante apprendere che Villon si trovi di casa dentro i confini di un mainstream letterario ed interstestuale, e che egli sia profondamente impegnato e in qualche modo coinvolto a livello competitivo con le opere dei suoi predecessori e dei suoi contemporanei”. (4) La parola “branc”, che significa “spada”, ha un doppio significato ed evoca l’idea del sesso maschile. E’ stato anche notato che questa parola può essere collegata alla crusca, “escremento”, e aggiungere un significato escatologico al regalo che Villon fa al suo “amico”. Il “branc”, già dato a Ythier Marchant nel Lais (v. 80-83), viene donato anche al “maistre” Guillam Charruau ( Test, otto. 99, v. 1022 – 1025) con il suo significato erotico di “sesso femminile”. E’ chiaro che in questo caso i termini citati portino un forte potenziale evocativo che non ha bisogno di essere sviluppato ulteriormente . In altre parole, come unità semantiche isolate, queste parole sostituiscono da sole le parole corrispondenti, di cui assumono il significato. (4)
(1) Villon entre mythe et poésie, textes édités par Jean Dufournet et Marcel Faure, a cura di Alessandro Bertolino
(2) Les enfants perdus (Testament, 1660-1661) : François Villon et la marginalité, Fleur Vigneron
(3) Les prisionners “desconfortes”: les litteratures de la prison au bas Moyen Age – Julie Claustre
(4) Sara Preisig The Poetry of Francois Villon: Text and Context (review)
(8) Fascino di Villon, Paolo Budini
Tempo verrà che farà appassire e ingiallire
fno a seccarlo il tuo fare radioso,
ne riderei allora se non fossi sdentato,
niente da fare, sarebbe una follia:
io sarò vecchio, tu brutta e avvizzita,
bevi a piena gola finché scorre il fiume,
non dare a tutti questo dolore,
senza infierire, soccorrere un ferito.Francois Villon