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Autobiografia di una piccola cellula


Le cellule sono sature. Gli occhi annegano nella luce. La luce bianca fascia ogni cosa. La deflagrazione è vicina. Cellule atomiche pronte a scoppiare, ad annegare di luce il corpo fino a farlo sparire.  Rimane l’impronta sul muro. E con quell’impronta bisognerà fare i conti d’ora in poi.

Settembre

L’uomo della luce stava alla fine della strada. Erano anni che l’aspettava. Era venuto il momento. 
Cacciò un urlo dal profondo delle viscere. Quell’urlo la tramortì. Sentiva freddo alla schiena, tra le scapole. Ma non si voltò. Me l’hai rubata! – la voce veniva da dietro una tenda stracciata. 
Lei non girò la faccia, non era per lei, era sicura. Gli occhi fermi sulla strada. Ma le sue gambe tremavano. La testa che girava. 
Fece un passo indietro guardò verso la tenda: vide un corpo ingombrante, che occupava la sua vista periferica come chi avesse diritto. 
Lui l’aspettava in una rientranza della strada, proprio all’inizio dei suoi vent’anni. Era da lì che avrebbe aspettato. Da lì sarebbe venuto. L’aveva sempre saputo. Si morse il labbro. Era da una vita che girava la testa ad ogni angolo di strada. Ora sapeva perché. Non era un tic, no. Era l’universo che aveva qualcosa in serbo per lei. Comunicava attraverso le piccole mani dell’ombra a lambirle le scarpe. Aveva sempre girato la testa, per non guardare. Qualcuno sarebbe venuto da un angolo buio a reclamare la sua luce, la sua vita. Sette anni invasa dai cieli. Per sette anni tutti i giorni aveva ingoiato quell’aria dolce. Dita intinte nei cieli al tramonto gli formicolavano nel petto. Il coraggio dei boschi di chi è pronto a sbranare i lupi. Tutto per lei. Il suo viso, il suo corpo che si riflettevano su ogni superficie erano un omaggio continuo alla sua bellezza, un diritto. Ora sapeva perché…tutto quel volteggiare attorno ai pericoli, col paracadute alla schiena. Per evitare che l’ombra la mangiasse, che le mangiasse la luce.Ma no, no, era una paranoia. Solo paranoie sceme. Lei continuava a camminare avvolta in quella luce bianca. La abitava. La respirava. Era sua. Ormai ne era sicura. Tutti quegli odori, quei sapori che le davano alla testa, che le gorgogliavano nel cervello, fino alla gola. Anche quelle sensazioni suo diritto di nascita. Il suo tesoro nascosto, indicibile, cucito sotto la pelle tesa. La luce era un fiume sotterraneo, sgorgava dal petto e scendeva, scendeva fino ai piedi, facendo godere quel corpo a ogni sussulto, a istante…solo scaramanzie senza senso quel girare la faccia a ogni angolo. – Ragazza dico a te! – urlò ancora il vecchio, come a strapparla fuori dall’intontimento. Aveva la voce rauca e il fiato corto. Aveva gli occhi pesti, in fondo occhi neri da poliziotto. Come avesse l’imprimatur del tribunale. O della questura. O forse uno sciacallo, che non aveva niente da perdere. Era molto sicuro comunque. Portava abiti vecchi. Una ventata di pesce fritto e di pezze rancide da dare alla testa. Alto e largo, il ventre ingombrante. Camminava dondolando su vecchie scarpe sfasciate. Non si curava della puzza nè del suo brutto aspetto. Aveva il lasciapassare. Diritto di stupro e saccheggio. Vidimato dall’universo. Perché l’universo si sa’ è cattivo. Perché le stelle morenti sennò?Lei sentì il fetore che scendeva a rivoli giù per il corpo fino alle scarpe. Le sue dita erano ficcate in una rete che cercava di sbrogliare. Si fermò a guardarlo, ebbe un presentimento. Aspettava lei, lo sapeva. Lei si sentì in colpa e goffamente cercò dei soldi nel portafoglio, lui glieli strappò di mano, li stropicciò tutti e ne fece una pallottola. Se li mise in tasca senza parlare. La fissava. “Sei giovane, e sei anche forte ma questo non ti aiuterà” – Lei si sforzava di pensare: è solo un povero vecchio, una persona che ha avuto sfortuna, per questo mi odia. Era gentile con lui, perché aveva paura. Voleva scappare, mettersi a correre. Sentiva che la sua ferocia era senza rimedio. Quella ferocia gettava un’ombra sulla sua luce, la tratteneva. “Sono venuto a riprendermela” – le disse con calma dopo essersi acceso un moncone di sigaretta, i denti affilati, gialli, uno sconcio di bocca. Si rigirava la lingua, gustandosi la sua amarezza. “Lei è venuto a riprendersi cosa?” – disse la ragazza tremando un poco. “La luce, lo sai che cosa intendo”. Lei fingeva di non sapere, non voleva vedere quell’umanità macellata, quel suo vivere ancora aggrappandosi all’odio, alla rapina, all’invidia. Doveva andarsene. Ma non riusciva a muoversi. “Tu sei bella – disse il vecchio – ma la vita non fa per te. Non l’ho deciso io. E’ la vita che è così”. “Non capisco che cosa vuoi dire” – rispose lei e fece un passo indietro. “Sì che lo sai”- lui la guardò senza desiderio. Voleva distruggere quel corpo, perché non poteva essere suo. Non gli importava comunque. L’avevano mandato per darle la notizia, niente di più, e rubare quel che poteva rubare. Aprì la rete lentamente con le sue unghie sporche. Sorrise con sicurezza. Gli avevano dato il permesso. La sua ingenuità, se la rigirava nella bocca, e la assaggiava a poco a poco, aspettando di schiacciarla, che ne uscisse il sangue in una volta. Continuava a passarsela appena sotto i denti. “Non capisco questa storia della luce” – continuò lei fingendo di non capire. Ora tremava tutta. Iniziò a battere i denti. Lui aprì la rete, svelto: “Mettila qui. L’avevi rubata comunque, sapevi che non poteva durare”. “Ma non posso” – disse lei. Era appena iniziata, tu non puoi venire così da me e portarmela via. Era mia comunque, io lo so’ che era mia” – protestò la ragazza. Lui scosse la testa, con un orribile sorriso. Iniziò a ridere e a tossire. “Sù, facciamola finita, metti la luce qui dentro” – e sollevò il sacco in avanti. Forza, è finita. Non hai scelta, se non me la dai te la dovrò strappare di dosso. “No è mia!” – urlò la ragazza. E’ la mia vita…tu non puoi!” protestò con voce stridula. “Non ti metterai mica a piangere ragazza, almeno se la dobbiamo farla finita, facciamolo con un pò dignità”.  Si sforzò di sorridere mentre frugava nella rete, ma era un sorriso preso in prestito. Si vedeva che gliel’avevano portato via tanto tempo fa, che aveva dimenticato come costruirne uno. Il vecchio non sapeva più  come si sorride, e che cosa fosse la pietà. “Dai ragazza dammi la luce. Non facciamo piagnistei”. Lei si mise in ginocchio. Tremava. “Hai paura?” chiese lui. “No, non ho paura” rispose lei. Lei si accorse di essere in un piccolo spazio sudicio, un vicolo oppresso da palazzi neri, sotto la luce arancione dei fanali. Le ombre si allungavano, le luci incominciavano ad accendersi. Il cielo aveva ingoiato la luce quasi per intero. “Sù, il sole è andato. Vuoi che facciamo notte?”. “Ma il sole..balbettò lei ancora incredula. Il sole poi tornerà, non è vero?  Non è vero?” insistette la ragazza. L’uomo non rispose. Aveva abbassato il cappello e la faccia era rimasta in ombra. Forse era passata come un lampo la pietà sulla sua faccia ma la ragazza non vide niente. “Avanti, dammela, facciamola finita. Non piangerai mica” – “No non piangerò” rispose lei guardandosi attorno. “Non ci sono vie di fuga, nè scuse.” – disse lui ansimando per la stanchezza. “Non farmi fare fatica, spogliati” le ordinò lui, avvicinandosi a lei sospirando. “Perché?” chiese lei indietreggiando, tastando i muri alla ricerca di un portone, di un altro vicolo, aggrappandosi alle pareti umide. “Ho detto di spogliarti. Non farmi fare tutto a me, sono vecchio e stanco, sù avanti. Non sentirai niente. Non te ne accorgerai nemmeno” lo guardò, impegnato a fabbricare una sorta di gentilezza. Allora lei seppe che non c’era scampo. Incominciò a spogliarsi, a far cadere i vestiti a terra, tremando. Alla fine incrociò le braccia sul petto chiudendo gli occhi. Si cacciò dentro la parte più buia, strizzando gli occhi. La bocca tremava. Lui le chiese se aveva freddo. Lei gli chiese se aveva finito. 
“Non ancora”  disse lui. La spinse per terra e le montò addosso. Non riuscì a capire quanto durò, erano stati dei minuti forse ma a lei era parsa un’infinità di tempo. Non riusciva a muoversi mentre sentiva che lui le scaricava addosso tutta la sua rabbia, mentre lui era impegnato a cacciarsi dentro il suo buio, con forza. 
A un certo punto le morse un seno, allora lei cercò di allontanarlo da sè, ma il suo impegno, la sua volontà erano troppo forti. “Come sei morbida..che peccato” – disse lui verso la fine. 
Quando riaprì gli occhi il vecchio era in piedi impegnato a cacciare dentro qualcosa nel suo sacco. “Vorrei rivedere la luce ancora una volta” – lo pregò lei. “Non c’è niente da vedere, l’ho già piegata” rispose lui frettolosamente. Finisce così? Me la riporterai? – chiese la ragazza. L’uomo fece cenno di no con la testa. Poi si allontanò con calma con la luce nella rete che illuminava la massicciata più dei fanali. 

di Anna Laura Morello, The Accidental Writer


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