
Ma, perchè “in letteratura le parole ‘siano’ date da leggere nella loro materialità”, è necessario operare “una riduzione sul linguaggio che lo spoglia del suo senso allo scopo di trasformarlo in un materiale neutro – cioè materia bruta”.
Senza questa operazione si rischia di impantanarsi non solo nel vecchio, ma nel mediocre. A tal proposito ricordo un consiglio della poeta e scrittrice Mariella Bettarini, che, invitandomi a lavorare le parole con ‘più severità’, mi metteva in guardia dal cadere nel ‘fare diario’, non più in là insomma dell’autocoscienza.
“Per Schklovski, un formalista russo, le persone smettono di vedere i diversi oggetti che le circondano, gli alberi, le nuvole, le case. Li riconoscono senza guardarli veramente. E secondo Schklovski il compito dello scrittore è di ricreare la prima visione delle cose nella sua potenza, in contrasto con il banale riconoscimento che se ne fa tutti i giorni.
Ciò che lo scrittore ricrea è effettivamente proprio una visione, ma non si tratta di quella delle cose ma piuttosto della prima visione delle parole, nella sua potenza. (….) E’ quello che io chiamo fare centro con le parole” (Wittig).
Una simile visione della letteratura dovrebbe rendere giustizia a Monique Wittig, permettendo anche a chi la denigra per opportunismo ideologico di riconoscere l’ampiezza del respiro che la sosteneva e la guidava. Lo shock delle parole proveniva per la scrittrice non dai concetti, ma dalle parole stesse, da come erano/sono disposte. Il lavoro sulle parole/con le parole è quello che fa la letteratura. Nella letteratura “le parole ci vengono rese intere. La letteratura può insegnarci qualcosa che può servire in qualunque altro campo: quando le parole lavorano, la forma e il contenuto non possono essere diss-ociati perchè dipendono dalla stessa forma, la forma della parola, una forma materiale”.
Mas perchè in letteratura possa darsi una macchina da guerra, cioè un’opera realmente innovativa, è necessario che il punto di vista dell’autore si faccia da ‘particolare’, universale”. “L’impresa più essenziale e strategica del lavoro di ogni scrittore consiste nell’universalizzare questo punto di vista” (Wittig).
L’opera di Proust come quella di Djuna Barnes, sono da questo punto di vista, per Wittig, perfettamente riuscite.
“Più il punto di vista è particolare e più l’impresa di universalizzazione esige un’attenzione sostenuta agli elementi formali che sono suscettibili di essere aperti alla storia come i temi, i soggetti del racconto e contemporaneamente alla forma globale del racconto. ” (Ibidem).
Il duro lavoro con le parole è dovuto anche al fatto che, come scriveva Virginia Woolf, la loro caratteristica più ‘sorprendente’ è ‘il loro bisogno di cambiare’. Troppo devono dire e infinite sono le narrazioni del mondo che le aspettano (e noi con loro) perchè non cambino. In questo senso è grazie “a questa loro complessità che esse sopravvivono” (Virginia Woolf).
Da “A” rivista Anarchica, N. 307