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La metamorfosi dell’archetipo della Grande Madre


di Marisa Grande

La Venere di Poire

Gli archetipi, secondo Jung, corrispondono alle immagini primordiali riposte nell’inconscio collettivo. Rielaborati continuamente dalla coscienza delle società umane, acquistano forme simboliche che si manifestano in prototipi, distinti in relazione alle capacità di interpretazione di chi osserva e di chi sperimenta la realtà circostante.
Le caratteristiche etniche e psicologiche di una società rimodellano e rinnovano l’immagine delle forme archetipiche rappresentandole in prototipi e determinando, con le varianti simboliche degli stessi, anche le variazioni dei concetti che sostengono l’interpretazione dei significati originali insiti negli archetipi di partenza.
Si assiste, così nel tempo, allo sviluppo delle varianti formali dei prototipi dell’archetipo e al conseguente adeguamento del concetto di base e del significato della forma archetipica alle modificazioni culturali specifiche operate da ogni distinta civiltà.
Fino al 2008 la statuina denominata “Venere di Willendorf” (Austria) era considerata il prototipo della primordiale Grande Madre, poiché riproduceva la sua forma così come era concepita dall’uomo nella fase conclusiva della Glaciazione Würm, nel periodo denominato “Gravettiano” o “Perigordiano”, esteso tra i 27.000 e i 20.000 a. C.

Nel 2008, a Schelkligen, in Germania, in una cavità denominata Hohle Fels, fu rinvenuto un prototipo di statuina muliebre molto più antico della Venere di Willendorf.

Si trattava di una piccola scultura in avorio, ricavata da un osso di mammuth, risalente a 40.000 anni fa, denominata poi, per similitudine con le statuine gravettiane, “Venere di Hohle Fels” o “Venere di Schelkligen”. Sorprende, però, tale associazione, poiché la statuina di Hohle Fels precede di molti millenni le cosiddette “Veneri gravettiane” scolpite alla fine del Pleistocene, nella fase conclusiva della Glaciazione Würm.

Se la consideriamo come esemplare di un ritratto muliebre dell’epoca, la “Venere di Hohle Fels ci comunica che l’accentuazione delle sue caratteristiche femminili è simbolica, poiché rimanda all’importanza che assumeva per l’Homo Sapiens-sapiens dell’epoca aurignaziana di 40.000 anni fa il suo ruolo “di progenitrice”, finalizzato ad assicurare la sopravvivenza della specie.

Risultando simile all’esemplare della Venere di Willendorf dell’epoca gravettiana, che risponde anch’essa al ruolo richiesto dalle medesime esigenze di assicurazione delle continuità della vita umana su questa terra, possiamo dedurre che entrambi i prototipi, pur di epoche diverse, rimandano ad un medesimo “modello di donna feconda”, simbolo dell’energia generatrice dell’umanità.

Entrambi i prototipi, l’aurignaziano e il gravettiano, simili malgrado la grande distanza temporale che li separa, possono essere pertanto considerati “simulacri dell’archetipo universale di una dea astrale ritenuta la Grande Madre dell’umanità”.

Avvalora e sostiene tale ipotesi la ricostruzione del modello di riferimento dal quale hanno potuto trarre ispirazione gli esponenti delle due distinte culture che hanno prodotto le statuine muliebri a distanza di 20.000 anni l’uno dall’altro, consistente in un’immagine ricostruibile nel cielo collegando tra loro alcune costellazioni vicine. La macro-costellazione che si ottiene descrive la forma della Grande Madre astrale così come è riprodotta sia nella Venere di Hohle Fels e sia nella Venere di Willendorf.

Ritenuta generatrice e nutrice dell’umanità, alla Grande Madre astrale, archetipo di cui le Veneri rappresentano il prototipo, è stato tributato fino al Paleolitico il primordiale culto matriarcale, ossia il corrispondente femminile del culto patriarcale tributato al Grande Padre Orione, con il quale ha alternato periodi di predominio di tredicimila anni solari, corrispondenti alla metà degli anni del grande ciclo della precessione degli equinozi.

È rara, invece, la pratica del culto sincretico e paritetico conferito ad entrambi, simile a quello testimoniato dalle immagini della coppia Grande Madre-Orione, rinvenute sul Monte sacro Latmo nell’Anatolia del VI millennio a.C. L’antico culto pleistocenico della Grande Madre all’epoca era infatti ritenuto già tramontato sin dal millennio XI a.C, da quando, cioè, per il passaggio ai “cieli nuovi” dell’Olocene, la sua figura era andata sempre più assottigliandosi sull’orizzonte, fino a poterla considerare tramontata, a conclusione di un tempo iniziato oltre tredicimila anni prima, un periodo esteso tra l’alfa dei 24.321 e l’omega dei 10.880 a.C.

Era avvenuto allora che nell’immaginario collettivo, a causa degli eventi caotici che avevano segnato il passaggio dal Pleistocene all’Olocene, il culto della Grande Madre aveva lasciato il posto al culto del Grande Padre Orione, protettore dell’Olocene.

La metamorfosi della Grande Madre

In alcune regioni, però, già nel Solutreano (18.000-16.000 a. C) e poi nel Magdaleniano (16.000-10.000 a. C.) si era registrato l’avviarsi al tramonto della Grande Madre, come è testimoniato dalla progressiva riduzione delle forme opulente delle Veneri di origine gravettiana. Con la produzione di “calendari lunari”, richiamanti il calcolo delle fasi della gestazione della donna; riproducenti nella loro forma a cerchi concentrici o a spirale sinistrorsa l’espansione schematica del grembo materno, si voleva probabilmente porre maggiore attenzione e cura al delicato ruolo procreativo della donna in un tempo sfavorevole per le nascite a causa delle turbolenze climatiche che caratterizzavano i millenni del post-glaciale, un periodo compreso tra il massimo picco di freddo raggiunto nel 17.500 a.C. e la fase temperata iniziata astronomicamente nel 10.880 a. C.

L’aspetto filiforme e caotico della figura femminile riprodotta in alcune pitture nere della Grotta dei Cervi di Porto Badisco, presso Otranto (Le), dipinte dopo il 10.000 a. C. dimostra, pertanto, che nel difficile periodo comprendente l’epi-Paleolitico e il Mesolitico, nel quale l’umanità era ridotta allo stremo per turbolenze climatiche e devastazioni ambientali, si era determinata anche una modificazione del prototipo-donna, lontana oramai dal modello dell’archetipo Alfa rappresentante la primordiale Grande Madre (A’), apparsa agli occhi fiduciosi dei progenitori del Paleolitico come una dea benevola e protettiva, in forma di pacifica gestante, composta da una miriade di stelle, posizionate a fianco della Via Lattea e brillante nell’immensità del  cielo boreale notturno.

Da: Il Corriere del Salento 14 marzo 2021


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