di Salvatore Ferlita

Sono trascorsi più di trent’anni da quando Jack Hirschman mise piede per la prima volta in Sicilia: l’occasione gli fu offerta dalla pubblicazione bilingue della sua traduzione di “Yossyph Shyryn” di Santo Calì, poeta di Linguaglossa scomparso nel 1972. Ma già prima il poeta americano del dissenso, vicino per un certo periodo ai grandi della beat generation, ebbe modo di conoscere l’Isola, nei versi, nelle intemperanze, negli empiti anarcoidi di Nat Scammacca, Crescenzio Cane, Rolando Certa, Carmelo Pirrera, Ignazio Apolloni, coloro i quali avrebbero dato vita all’Antigruppo. Fu di Scammacca il merito di mettere in contatto la Sicilia con Ferlinghetti, Ginsburg e Hirschman per l’appunto. Ne derivò un continuo e prolifico andirivieni: i poeti americani arrivavano in Sicilia, contribuendo alla sprovincializzazione del dibattito culturale, e gli autori isolani oltrepassavano l’oceano. L’autore di “The Arcanes”, che non dimostra affatto i suoi settantotto anni, nei giorni scorsi ha parlato di poesia prima a Enna, nell’auditorium dell’università Kore, invitato dalla professoressa Marinella Muscarà, presidente del corso di laurea in Lingue e culture moderne, e introdotto da Annalisa Bonomo, docente di Lingua inglese.E poi a Nicosia, dove ha pure recitato i suoi versi al cine-teatro comunale Cannata, presentato dal critico letterario Nino Arrigo.
Ma che ricordi serba, Hirschman, di quel periodo di fermenti e poetici fervori? «Tanti anni fa – racconta il poeta statunitense – ho avuto l’onore di vivere in Sicilia e di conoscere molti luoghi. Ricordo con particolare affetto Nat Scammacca, un siciliano vissutoa New York, che ha combattuto nel corso della seconda guerra mondiale e che dopo il conflitto è tornato alle sue origini. Ha vissuto a Trapani e riuscì a organizzare un movimento poetico in Sicilia».

Quando lo incontrò per la prima volta? «Era a San Francisco nel 1977: lì feci la sua conoscenza e cominciai a sottoporre alla sua attenzione delle poesia mie che poi pubblicava a Trapani, in una sua rivista. Lui stesso scoprì un altro poeta siciliano, Santo Calì,e io tradussi un suo libro “Yossyph Shyrin” bilingue pubblicato dall’Antigruppo. Il nome del gruppo proveniva dalla vocazione anarchica di Nat, sebbene il nome cambiò successivamente in Intergruppo. Un bel giorno mi invitò in Sicilia».
Scammacca era famoso per la sua ospitalità: si fermò da lui? «Sì, in quel periodo per tre mesi vissi con Nat a Trapani e a Mazara del Vallo.
Divenni amico di Rolando Certa, di Crescenzio Cane, l’autore di “Bomba proletaria”, un bel libro, e incontrai anche Ignazio Apolloni. In seguito, scoprì che Ignazio aveva insegnato presso il dipartimento di italiano della Ucla, l’università dalla quale venni espulso ( Hirschman si fece promotore di una serie di proteste e manifestazioni contro la guerra in Vietnam, definite “contro lo Stato”, n. d. a .).
Quali altri poeti di quel giro ricorda? «Ho memoria di un altro autore, Carmelo Pirrera. Era una grande poeta. Ma anche Disma Tumminelli, vicino a Nat, e il grande Ignazio Buttitta. Ho incontrato la vedova di Santo Calì a Linguaglossa: il tempo passato con lei è stato fantastico».
Da oltreoceano, come vedeva l’antigruppo siciliano? «L’importanza dell’antigruppo fu enorme. Era una compagine che, in direzione della contestazione da un lato e dall’altro della necessità di portare la poesia in piazza, convogliava energie e faceva lavorare insieme gli autori coinvolti». Cosa rimane oggi, a suo avviso, della beat generation? «La beat generation continua a sopravvivere ancora oggi perché non ha una sua filosofia. Il zeitgeist della beat generation è una sostanza stupefacente».
Lei fu amico di Allen Ginsberg e Gregory Corso: quale dei due la segnò maggiormente? «Ginsberg fu molto importante per me: il bardo della guerra fredda. Era il più politico della beat generation. Ha creato con Lawrence Ferlinghetti il movimento da una parola usata da Kerouac. Beat voleva dire secondo Kerouac “beato” ma anche dannato. È ambigua nel senso di Kerouac, ma indica comunque qualcuno fuori dal convenzionale e allo stesso tempo beato perché vagabondo. Kerouac era ispirato da quella che secondo me rimane la più grande poesia americana, “The Song of the Open Road” di Walt Whitman. La poesia, cioè, che realmente annunciava lo spirito americano».
Qual è, secondo lei, il vero rapporto tra poesia, trasgressione e dissenso? «Che Gingsberg fosse un po’ gay, che sperimentasse l’Lsd è vero, ma se si ricorre alla droga con moderazione puoi beneficiarne. Se invece si esagera, il rischio è quello di diventare una cometa come Jim Morrison, che fu uno dei miei studenti alla Ucla di Los Angeles. Riguardo poi al dissenso, posso riferirmi alla mia esperienza: al momento lavoro per il movimento comunista a San Francisco, per le strade. Se qualcuno è obbligato a cercare il cibo nell’immondizia, può puntare il dito contro il sistema. Se una persona è obbligata a dormire per le strade, non è colpa sua e nemmeno dell’alcol o della droga. La colpa è del sistema. La mia poesia è al servizio delle vittime del sistema capitalistico. Questa è la responsabilità di un vero poeta. Significa appartenere veramente agli esseri umani».
Dall’Archivio di Repubblica