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Bearsdley o l’oscenità del linguaggio






A. Beardsley o l’oscenità del linguaggio

L’incessante, indiscriminata copula nel racconto “Venere e Tannhauser” ricalca il florilegio ininterrotto di motivi decorativi: più che l’erotico Beardsley esplora un territorio di totale indipendenza linguistica, dove, legata solamente  da intrinseche limitazioni strutturali, ogni cosa potrebbe modificare qualsiasi altra. Nel sovvertire ogni regola, Beardsley spoglia e adorna la sua Venere come fa con la sua prosa.La scomparsa del corsivo e delle virgolette sta a significare che la frizione più marcata che Pater, il suo antecessore, manteneva fra lingua straniera e madre lingua viene considerevolmente allentata. Nelle mani di Beardsley, lo stile eclettico di Pater perde ogni pudore residuo e si fa totalmente artificiale. 
Il mondo di Beardsley dove le maschere imitano le facce incipriate, e i baffi finti sono tinti di un verde squillante – è linguistico in maniera omogenea: mostra il modo in cui il mondo appare allorquando si distorce al punto da diventare completamente estraneo al linguaggio corrente.”Lo stile di Beardsley si libera dai processi deliberati dell’Eufuismo* di Pater e appartiene alla fine dell’idioma, alla lingua artificiale della Decadenza letteraria”.
I critici Heather Henderson e William Sharpe fanno notare che “nella maggior parte dei casi la parola decadente suggeriva una sofisticazione di un gusto ultra-raffinato accoppiato a una perversione sul piano morale” (1937).Così il critico Haldane Mcfall: (Beardsley) usa la sua lingua madre come se fosse obsoleta, una lingua morta – presta più interesse a parole morte che a quelle vive…in breve, nella sua arte è un decadente senza speranza”.Sebbene l’equazione Decadentismo-lingua morta sia diventato un luogo comune nell’ambito della critica letteraria, è comunque una concezione che deriva dalla mentalità vittoriana, dal contesto della sua epoca. 
Esisteva al tempo infatti la concezione del linguaggio decadentista come linguaggio “morto”, in gran parte assimilato alla corruzione o ad una “malattia” linguistica, come se il linguaggio fosse un organismo potenzialmente soggetto a “malattia” o a “degenerazione” (ved. August Schleicher e Max Muller : per loro lo stile decadente è “frollato e venato di corruzione”). 

L’incessante, indiscriminata copula nel racconto “Venere e Tannhauser” ricalca il florilegio ininterrotto di motivi decorativi: più che l’erotico Beardsley esplora un territorio di totale indipendenza linguistica, dove, legata solamente  da intrinseche limitazioni strutturali, ogni cosa potrebbe modificare qualsiasi altra. Nel sovvertire ogni regola, Beardsley spoglia e adorna la sua Venere come fa con la sua prosa.La scomparsa del corsivo e delle virgolette sta a significare che la frizione più marcata che Pater, il suo antecessore, manteneva fra lingua straniera e madre lingua viene considerevolmente allentata. Nelle mani di Beardsley, lo stile eclettico di Pater perde ogni pudore residuo e si fa totalmente artificiale. 
Il mondo di Beardsley dove le maschere imitano le facce incipriate, e i baffi finti sono tinti di un verde squillante – è linguistico in maniera omogenea: mostra il modo in cui il mondo appare allorquando si distorce al punto da diventare completamente estraneo al linguaggio corrente.”Lo stile di Beardsley si libera dai processi deliberati dell’Eufuismo* di Pater e appartiene alla fine dell’idioma, alla lingua artificiale della Decadenza letteraria”.
I critici Heather Henderson e William Sharpe fanno notare che “nella maggior parte dei casi la parola decadente suggeriva una sofisticazione di un gusto ultra-raffinato accoppiato a una perversione sul piano morale” (1937).Così il critico Haldane Mcfall: (Beardsley) usa la sua lingua madre come se fosse obsoleta, una lingua morta – presta più interesse a parole morte che a quelle vive…in breve, nella sua arte è un decadente senza speranza”.Sebbene l’equazione Decadentismo-lingua morta sia diventato un luogo comune nell’ambito della critica letteraria, è comunque una concezione che deriva dalla mentalità vittoriana, dal contesto della sua epoca. 
Esisteva al tempo infatti la concezione del linguaggio decadentista come linguaggio “morto”, in gran parte assimilato alla corruzione o ad una “malattia” linguistica, come se il linguaggio fosse un organismo potenzialmente soggetto a “malattia” o a “degenerazione” (ved. August Schleicher e Max Muller : per loro lo stile decadente è “frollato e venato di corruzione”). 

Huysmans fa diretto riferimento alla putrefazione come malattia quando, in A Rebours (1884), addita gli scritti di Baudelaire e Mallarmè come “(portatori) della decadenza di una letteratura  attaccata da un’incurabile malattia organica”….e “spossata da un eccesso di sottigliezza grammaticale”.Venere e Tannhauser è un opera decadente, sebbene il termine “decadente” sia difficile da definire. Come ha notato Elaine Showalter, alla fine del secolo il termine possedeva connotazioni antitetiche.Da una parte, l’etichetta peggiorativa affibbiata dalla borghesia a tutto quello che le sembrava “innaturale”.Dall’altra il decadentismo letterario come ideologia estetica sbandierato dalla comunità degli artisti e degli scrittori, i quali “rigettavano tutto quello che era naturale e pertinente alla biologia e alla natura” in favore della vita interiore dell’arte, dell’artificio, della sensazione e dell’immaginazione. 
Se vogliamo azzardare un’interpretazione psicoanalitica un pò selvaggia, quel filone di decadentismo letterario non presentava “corruzione” nel senso etico del termine, ma era attraversato e scosso da una corrente sotterranea di istinto di morte.

Aubrey Bearsdley, Salomè

Nel caso di Beardsley, un istinto di morte intinto nell’inchiostro della sua china. Nelle sue illustrazioni, ogni cosa sembra essere sul punto di disfarsi: le belle natiche di Venere, le sue candide guance, i corpi afflitti ora dalla pinguedine ora dalla deformità. I corpi di Beardsley sono sfatti, sinistramente compiaciuti di questo sfacelo della carne, della bruttezza senza speranza che sa di essere sul punto di sciogliersi e disintegrarsi. Oppure sono eroici, iconici, innaturali: irrigiditi nel momento di un orgasmo senza fine che assomiglia più al rigor mortis di una pallida lapide di carne che alla solare esplosione di un corpo vitale; sembra la celebrazione della bellezza, ma in un eccesso estetizzante, tutto si tramuta in artificio, come gli enormi peni degli strambi personaggi che popolano le sue chine. 
La morte non si nasconde soltanto nell’artificio di pratiche para-filiache, anti-coitali, ma nell’artificio del linguaggio. Tutto è posticcio, ornamento, arzigogolo, non nelle vesti di Venere e Tannhauser, ma nelle loro menti, nei loro sessi dolenti, nelle pratiche dove l’eros è rarefatto, un pallido fantasma, l’eco di una masturbazione nervosa.Lo stile è ornamentale e monumentale al tempo stesso. L’occhio indugia sui particolari di oggetti inanimati, raffinatissimi e che magnificati, rubano la scena ai personaggi, i quali, poco più che comparse, non sono che carne da bordello sotto pesanti tende di velluto. 
Nel frattempo Bearsdley regge il monocolo, si trastulla. Venere possiede la consistenza di un sogno, non è che una voce, gambe, seno, sesso. E’ parcellizzata, scomposta in tanti quadretti e quando la figuriamo intera ha la posa innaturale di una statua. L’estetismo sfrenato e l’eros ante-portam di Beardsley la sua sessualità anti-vaginale hanno il sapore di una favola guasta che sa’ di esserlo. Beardlsey infatti, nonostante la giovane età è malato da tempo e morirà a soli 25 anni. L’estetizzazione eccessiva, l’erotizzazione panteistica, rituale, eccessiva, sono forse un modo per frenare la morte e l’eros avizzito e velenoso sono gli slanci di un corpo che ha imparato troppo presto a morire.
Venere e Tannhauser trabocca di riferimenti a oscuri libri, molti dei quali, come Stanley Wintraub ha dimostrato, non esistono. 
Così quello di Beardsley è un mondo testuale, iscritto e sovra-inscritto con motivi decorativi – dove per esempio, le perle ricamate su pantofole rosso-sangue possono essere indossate su delle calze di seta bianche portate a loro volta su gambe dipinte di nere silhouettes. Venere e Tannhauser è un favola per adulti. E’ collocata  in un luogo immaginario dove i suoi personaggi principali sono il mitico eroe germanico (Tannhauser) ed una dea greca (Venere). E’ decadente nella misura in cui ignora la realtà e gli standard della rappresentazione sessuale della letteratura Vittoriana.
La decadenza in letteratura inglese di fine Ottocento si fregia di un esteso catalogo di termini esotici, di un uso insistente degli aggettivi, della digressione sotto forma di arabesco stilistico, dell’etereogeinità della dizione – con il solo scopo di sovvertire in maniera ironica le rigide categorie di bene e male, bellezza e orrore. 
Gli onnipresenti motivi decorativi devono fra l’altro essere “letti” come testi, dal momento che tutti gli abitanti del mondo infero Venusiano si divertono tutti a “trovare un delizioso significato nella cascata di festoni, nelle volute delle parrucche e nelle nervature di una volta… (o) che cosa si intendesse con una certa disposizione di un mazzo di rose” (Beardsley, Venere e Tannhauser) La Venere e Tannhauser di Beardsley rappresenta in questo senso l’apoteosi dell’esperimento linguistico conscio di sè stesso, un mondo così interamente fabbricato per mezzo di arcaismi ed espressioni gergali da risultare artificiale.
Il linguaggio di Beardsley, così curiosamente lezioso, appare in questo sottobosco assolato di appetiti piacevolmente insaziabili come nulla più che il linguaggio ordinario di un mondo normale, naturale. 
Da qui l’impulso di accoppiare aggettivi sorprendenti a sostantivi inadatti, così che il riso è “atroce”, i boccoli “intelligenti”, le voci sono “snelle”, e le mammelle sono “malvagie”. Nelle mani di Bearsdley, i seni diventano “maligni”, non per un motivo etimologico meditato a fondo, ma semplicemente per il gusto della sorpresa o per introdurre una piacevole variante.*Eufuismo: Con eufuismo si indica lo stile letterario, d’uso in Inghilterra tra il 1570 e il 1590, caratterizzato da un gusto manieristico e dall’uso abbondante di figure retoriche

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