
Ho frugato a lungo, ma questa volta con decisione, tra gli articoli del mio vecchio blog, che appaiono nella distanza del tempo sparpagliati e senza una logica interna che li tenga ritti in piedi, algidi come ghiaccioli infiniti e di colori e gusti multiformi, come la traduzione diretta di questa stagione li vorrebbe. Ho pensato a loro come qualcosa da tenere dentro il freezer e da aggredire senza fame per raffreddare oltre alla gola, la mente.
Iconoclasta nel tempo di ciò che io stessa ho scritto, poco fa ho scoperto di non riuscire più a rintracciare un mio articolo su uomini e animali. Era molto bello, o almeno così lo ricordo. C’era una citazione di Rosa Luxemburg. Parlava della metamorfosi in animale che doveva essere pratica corrente per l’uomo primitivo un sogno dell’animale che diventava un sogno nell’animale e sondavo o almeno cercavo di farlo, il mistero di questa metamorfosi, la meraviglia e la magnifica continuità non solo filogenetica ma mentale che custodiamo nel nostro io più intimo, al confine fra il cervello e la carne, una pelle che ci permea tutti come i muri della caverna profonda. Comunque, ho trovato nel mucchio di pezzi scritti di mio pugno che invocavano aiuto ed anche il perdono per la mia trascuratezza e la mia colpa, il racconto “Ragnarok” di Borges che in questo momento sento affine. Il ritorno degli dei come mostri e fiere, spogliati delle umane abitudini e il tempo del sogno che ben si adatta a questo calore ovattato che non ci fa pensare ma che ci costringe a sognare come unico rimedio . Ora che siedo dietro al gonfiore del pomeriggio, e sono costretta a sognare e a vagare come sonnambula per le stanze buie con le tapparelle abbassate, penso che forse non c’è tempo migliore per il sogno che questo, ad eccezione naturalmente, della tana profonda dell’inverno.

Ragnarok – un sogno di Borges
“Nei sogni (scrive Coleridge) le immagini rappresentano le impressioni che noi pensiamo originate da quelle; non sentiamo orrore perchè ci opprime una sfinge, sogniamo una sfinge per spiegare l’orrore che sentiamo. Se è così, come potrebbe una mera cronaca delle sue forme trasmettere lo stupore, l’esaltazione, il timore, la minaccia e il giubilo che tesserono il sogno di quella notte? Mi proverò tuttavia a fare tale cronaca; forse il fatto che una sola scena costituì quel sogno potrà annullare o mitigare la difficoltà essenziale.
Il luogo era la Facoltà di filosofia e lettere; l’ora, l’annottare. Tutto (come suole accadere nei sogni) era un poco differente; una leggera amplificazione alterava le cose. Eleggevamo autorità; io parlavo con Pedro Enrìquez Ureña, che nel mondo della veglia è morto da molti anni. Bruscamente ci stordì un clamore di manifestazione o di musici ambulanti. Grida umane e animali giungevano dal basso. Una voce gridò: “Eccoli!” , e poi “Gli Dei! Gli Dei!”. Quattro o cinque esseri uscirono dalla turba e occuparono la pedana dell’Aula Magna. Tutti applaudimmo, piangenti; erano gli Dei che tornavano dopo un esilio di secoli. Ingigantiti dalla pedana, la testa gettata indietro e il petto sporto avanti, ricevettero superbi il nostro omaggio. Uno di essi teneva un ramo, che si adattava, indubbiamente alla semplice botanica dei sogni; un altro, con ampio gesto, protendeva una mano che era un artiglio; una delle facce di Giano guardava con diffidenza il becco ricurvo di Thoth. Forse eccitato dai nostri applausi, un altro, non so più quale, proruppe in uno strido vittorioso, incredibilmente aspro, qualcosa fra il gargarismo e il fischio. Da quel momento, le cose cambiarono.
Tutto incominciò col sospetto (forse esagerato) che gli Dei non sapessero parlare. Secoli di vita errabonda e ferina avevano atrofizzato in essi il carattere umano; la luna dell’Islam e la croce di Roma erano state implacabili con quei profughi. Fronti basse, dentature gialle, baffi radi di mulatti o cinesi e musi bestiali facevano manifesta la degenerazione della stirpe olimpica. Le loro vesti non si addicevano a una povertà decorosa e onesta ma al lusso spregevole delle bische e dei lupanari dei bassifondi. A un occhiello rosseggiava un garofano; sotto una giacca attillata s’indovinava la forma di un pugnale. Improvvisamente sentimmo che giocavano la loro ultima carta, ch’erano scaltri, ignoranti e crudeli come vecchi animali da preda e che, se ci fossimo lasciati vincere dalla paura o dalla compassione, avrebbero finito col distruggerci.
Estraemmo le pesanti rivoltelle (all’improvviso vi furono rivoltelle nel sogno) e gioiosamente demmo morte agli Dei.”
Jorge Luis Borges
Versione Originale in Lingua Spagnola
En los sueños (escribe Coleridge) las imágenes figuran las impresiones que pensamos que causan; no sentimos horror porque nos oprime una esfinge, soñamos una esfinge para explicar el horror que sentimos. Si esto es así ¿cómo podría una mera crónica de sus formas transmitir el estupor, la exaltación, las alarmas, la amenaza y el júbilo que tejieron el sueño de esa noche? Ensayaré esa crónica, sin embargo; acaso el hecho de que una sola escena integró aquel sueño borre o mitigue la dificultad esencial.El lugar era la Facultad de Filosofía y Letras; la hora, el atardecer. Todo (como suele ocurrir en los sueños) era un poco distinto; una ligera magnificación alteraba las cosas. Elegíamos autoridades; yo hablaba con Pedro Henríquez Hureña, que en la vigilia ha muerto hace muchos años. Bruscamente nos atudió un clamor de manifestación o de murga. Alaridos humanos y animales llegaban desde el Bajo. Una voz gritó: ¡Ahí vienen! Y después ¡Los Dioses! ¡Los Dioses! Cuatro o cinco sujetos salieron de la turba y ocuparon la tarima del Aula Magna. Todos aplaudimos, llorando; eran los dioses que volvían al cabo de un destierro de siglos. Agrandados por la tarima, la cabeza echada hacia atrás y el pecho hacia delante, recibieron con soberbia nuestro homenaje. Uno sostenía una rama, que se conformaba, sin duda, a la sencilla botánica de los sueños; otro, en amplio ademán, extendía una mano que era una garra; una de las caras de Jano miraba con recelo el encorvado pico de Thoth. Tal vez excitado por nuestros aplausos, uno, ya no sé cuál, prorrumpió en un cloqueo victorioso, increíblemente agrio, con algo de gárgara y de silbido. Las cosas, desde aquel momento, cambiaron.Todo empezó por la sospecha (tal vez exagerada) de que los Dioses no sabían hablar. Siglos de vida fugitiva y feral habían atrofiado en ellos lo humano; la luna del Islam y la cruz de Roma habían sido implacables con esos prófugos. Frente muy bajas, dentaduras amarillas, bigotes ralos de mulato o de chino y belfos bestiales publicaban la degeneración de la estirpe olímpica. Sus prendas no correspondían a una pobreza decorosa y decente sino al lujo malevo de los garitos y de los lupanares del Bajo. En un ojal sangraba un clavel; en un saco ajustado se adivinaba el bulto de una daga. Bruscamente sentimos que jugaban su última carta, que eran taimados, ignorantes y crueles como viejos animales de presa y que, si nos dejábamos ganar por el miedo o la lástima, acabarían por destruirnos.Sacamos los pesados revólveres ( de pronto hubo revólveres en el sueño) y alegremente dimos muerte a los dioses.
Versione in Lingua Inglese
In dreams, writes Coleridge, images form the impressions that we believe them to trigger; we are not afraid because we’re clutched by a sphinx, but rather a sphinx embodies the fear that we feel. If this is so, can a mere account of one’s dream–shapes transmit the stupor, the elation, the false alarms, the menace, and the jubilation that is woven into last night’s sleep? I will experiment with this account, without restraint; perhaps the fact that the dream was a single stream of consciousness expunges or mitigates this essential difficulty. The place was the School of Arts; it was dark. Everything was a little different (as the surface of things is in dreams); a slight magnification altered everything. We were picking the department heads. I was talking with Pedro Henriquez Urena, who by this night has been dead for many years. Suddenly–it comes to mind-we were startled by a massive demonstration or the disharmony of rank amateur street musicians. The shrieks of men and animals rose up from the lower floors. One voice called out: “Here they come!” and then “The Gods! The Gods!” Four or five beings emerged from the mob and took over the platform of the great hall. We all applauded, weeping; it was the Gods finally returning from centuries of exile. The platform exaggerated their prowess, they flung their heads backwards, and shoved their chests forward, arrogantly accepting our humble tribute. One held laurels, made–without a doubt-from the untouchable botany of dreams; another made a wide gesture, extending his hand which was a claw; one of the faces of Janus looked fearfully on the crooked beak of Thoth. Perhaps incited by our applause, one–I don’t remember which–burst forth in a victorious, unbelievably disagreeable clucking, with something akin to gurgling and hissing. Things, after that moment, began to change. Everyone began to suspect (perhaps excessively) that the Gods did not know how to speak. Centuries of life in exile, living like wild animals, had atrophied their once humanoid appearance; the Muslim moon and the Roman cross had been ruthless with these escapees. Low down Cro-Magnon brows, yellow teeth, meager Oriental mustachios, and beast-like lips obviously broadcasted the collapse of the lineage of Olympus. Their clothing didn’t allude to decent decorous poverty, but of the garish luxury of gambling dens and brothels. In a buttonhole, a red carnation bled; we detected a dagger’s outline beneath a tight-fitting coat. All of a sudden, we sensed that they were bluffing on their last card, that they were underhanded, dangerously ignorant, and cruel as aging predators, and that if we relented in fear or pity, they would destroy us. We drew our heavy revolvers (the guns appeared immediately in the dream) and we happily slaughtered the Gods. Ragnaröktranslation by Noah Hoffenberg