“Amore, un’altra volta, di sotto le sue palpebre azzurrine, va fissandomi con sguardo seducente, e con ogni sorta d’inganni mi getta nelle reti insolubili di Cipride; e io davvero ho un tremito al suo assalto, tal quale cavallo da giogo, campione, giunto a vecchiaia, che malvolentieri col cocchio veloce s’accosta alla sfida”.
Ibico

“Infatti tu sola puoi con una pace tranquilla aiutare i mortali, poiché le feroci opere della guerra governa Marte, signore delle armi, che spesso si rovescia nel tuo grembo, vinto dall’eterna ferita dell’amore, e così guardando da sotto, con la liscia cervice rovesciata, pasce d’amore gli avidi occhi agognandoti, o dea, e il respiro di lui resupino dipende dalla tua bocca.”
Lucrezio, Inno a Venere
Il lato abissale dell’uomo corporeo. La ferita che si apre su un corpo sempre integro e invincibile. L’inconscio o chi ne fa le veci, che sottomette la psiche razionale ed apollinea ai suoi capricci. Si aprono ferite sulla carne e la Fusis, la biologia, rivela da sola la sua incapacità di reggere e tenere. L’amore, come l’inconscio primordiale, espone l’uomo alla sua caducità, alla sua stessa morte. L’amore nell’antichità era un demone, una maledizione, un veleno da estirpare. Il patriarcato non sembra trovare rimedio alla propria segreta debolezza; la sua femmina interiore si torce e si ribella, rivelandone la finitezza, l’inconsistenza. Le membra si rammoliscono, il cuore batte battiti osceni e incontrollabili. Nel campo di un patriarcato tracotante che della guerra e quindi della forza ha fatto un mito, questa femminilità interiore non può che diventare malattia, dolore osceno e indomabile. La donna ha personificato per millenni l’incoscienza dell’uomo la quale, a sua volta, costella una condizione degradata. Jacob Boehme, mistico tedesco vissuto a cavallo dei secoli XVI e XVII, postulava per l’Adamo originario uno stato di veglia perenne. Hans Blumenberg, filosofo di fama e professore emerito presso l’università di Münster, scrive che l’uomo originario, il quadrumane ancora appollaiato sui rami, ed ancora poco differenziato dai primati nella scala evolutiva, non si abbandonava mai al sonno. Solo più tardi, divenuto bipede, e trasferitosi nelle grotte, poté concedersi di dormire esponendosi all’esperienza onirica”.Ad allora, però, risale la formazione dell’inconscio, un evento che, secondo la lezione di Freud, coincide con la psicopatogenesi la cui natura femminile viene testimoniata dalla storia dell’isteria. Veglia, salute, virilità e, potremmo aggiungere, purezza, connotano la condizione originaria e preistorica; per dirla in linguaggio biblico, descrivono la condizione antecedente alla caduta di cui la femmina sarebbe responsabile, e da cui la storia prende inizio. Nei miti greci echeggiano gli scontri tra le società matriarcali e le nuove genti indoeuropee a matrice patriarcale e adoratori del toro. Nei rapimenti di Zeus, ma ancora più in quelli di Dioniso, orditi con l’inganno a danno di bellissime fanciulle guerriere, forti come uomini, impavide e ribelli si legge la storia che scavalca il mito all’indietro, queste storie ci informano della formidabile collisione tra civiltà che forse ebbe luogo millenni prima.
“L’ amore di Medea e Giasone non dona gioia ai due amanti, anzi produce orrori: dopo che i due scellerati hanno concordato l’assassinio del fratello di lei, lo stesso autore del poema rivolge un’apostrofe ad Eros quale latore di infiniti dolori: “ Eros atroce, grande sciagura, grande abominio per gli uomini, da te provengono maledette contese e gemiti e travagli, e dolori infiniti si agitano per giunta. Ármati contro i figli dei miei nemici, demone, quale gettasti l’accecamento odioso nell’animo di Medea(oi|o” Mhdeivh/ stugerh;n fresi;n e{mbale” a[thn)”, Argonautiche, 4, vv. 445- 449).L’amore sembra legato alla pena da un vincolo di necessità. Si ricorderà che anche Virgilio apostrofa l’amore come un dio malvagio : “Improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis!”(Eneide, IV, 412).I due principi fondamentali di Empedocle, filia e neikos, coincidono, nel nome e nella funzione, con le due spinte primarie (Urtriebe), Eros e distruzione, la prima delle quali si sforza di combinarsi con ciò che esiste in unità ancora più grandi, mentre la seconda si sforza di dissolvere le combinazioni e di distruggere le strutture che essa stessa ha creato. (L’Empedocle di Freud). Eros si coniuga con Eris.Alcuni verbi greci sono significativi di tale associazione.”Meignumi , “unirsi sessualmente”, significa anche mescolarsi, incontrarsi in battaglia. Quando Diomede “si mescola ai Troiani”, vuol dire che viene alle mani, a distanza ravvicinata, con loro…Stessa cosa per damazo, damnemi : soggiogare, domare. Uno doma una donna che fa sua, come doma il nemico cui dà la morte”Amore è un combattente invincibile:”calepa; d’ e[ri” ajnqrwv-poi” oJmilei’n kressovnwn” è dura contesa per i mortali contendere con i più forti.Lo stesso Sofocle nelle Trachinie fa dire a Deianira che chiunque si alzi come un pugile per venire alle mani con Eros, non ha la testa a posto.Infatti Anacreonteaveva bisogno di alterarsi la mente con il vino per lanciare una sfida di pugilato a Eros: porta l’acqua, porta il vino, ragazzo, voglio fare a pugni con Eros. La guerra a volte viene fatta da Eros contro gli amanti concordi, a volte dagli amanti tra loro per sopraffarsi a vicenda. L’ Oreste dell’ Elettra sofoclea ricorda alla sorella che c’é un Ares anche nelle donne. Il riferimento è alla loro madre assassina ovviamente, ma il suo non è certo l’unico caso di connubio conflittuale e criminale.Alla dea Afrodite che, fin dal primo verso dell’Ippolito di Euripide, si presenta come divinità possente e non senza fama, la nutrice di Fedra attribuisce una forza d’urto ineluttabile :” Kuvpri” ga;r ouj forhto;n hj;n pollh; rJuh’/” (v. 443), Cipride infatti non è sostenibile quando si avventa con tutta la forza. Ella si accosta con mitezza a chi cede, ma fa strazio di trovi altero e arrogante. L’amore come guerra, fuoco che arde e squilibrio è affermato pure da Terenzio(190ca-159ca a. C.) nell’Eunuco:….se tu cerchi di mettere in ordine sicuro queste cose incerte, non fai di meglio che se ti adoperassi per fare il pazzo ragionevolmente, dice lo schiavo Parmenione al giovane Fedria innamorato, il quale risponde:”et taedet et amore ardeo, et prudens sciens,/vivos vidensque pereo, nec quid agam scio ” (vv. 72-73), non ne posso più e brucio d’amore, lo so e capisco e sono vivo e vedo e muoio, e non so che fare.SecondoLucrezio perfino Marte “armipotens ” viene vinto aeterno… vulnere amoris , dall’eterna ferita dell’amore.”Marte armipotens è debellato e ‘ferito’ dalla dea dell’amore e della pace… anche se l’immagine della “ferita d’amore” era già abbastanza convenzionale , qui il contesto la rivitalizza , sottolineando l’aspetto paradossale della situazione”In effetti questo Marte vinto dalle ferite è rovesciato rispetto a quello usuale che le infligge e su questo rovesciamento insistono i termini scelti dall’autore. Vediamo alcuni versi dell’inno a Venere:” Nam tu sola potes tranquilla pace iuvare/mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors/armipotens regit, in gremium qui saepe tuumse/reicit aeterno devictus vulnere amoris ,/ atque ita suspiciens tereti cervice reposta/pascit amore avidos inhians in te, dea, visus,/eque tuo pendet resupini spiriyus ore” (vv. 31-37), Infatti tu sola puoi con una pace tranquilla aiutare i mortali, poiché le feroci opere della guerra governa Marte, signore delle armi, che spesso si rovescia nel tuo grembo, vinto dall’eterna ferita dell’amore, e così guardando da sotto, con la liscia cervice rovesciata, pasce d’amore gli avidi occhi agognandoti, o dea, e il respiro di lui resupino dipende dalla tua bocca.-mortalis=mortales .-tereti cervice reposta (forma sincopata per reposita): si può notare come Mavors (arcaico per Mars ) si esponga alle ferite lasciando scoperta e rivolta all’amante la parte più tenera del corpo, quella attraverso cui nell’Iliade risonante di battaglie i guerrieri marziali vengono uccisi più frequentemente. Ma i versi più dolorosi sull’amore sono quelli del libro seguente dove il termine vulnus , ferita, non basta più e il segno lasciato dall’ansia erotica diviene una piaga che potrebbe diventare mortale se non curata :”Ulcus enim vivescit et inveterascit alendo/inque dies gliscit furor atque aerumna gravescit,/si non prima novis conturbes vulnera plagis/vulgivagaque vagus Venere ante recentia cures/aut alio possis animi traducere motus ” (IV, 1068-1072), la piaga infatti si ravviva e vigoreggia a nutrirla, la smania cresce di giorno in giorno, e l’angoscia si aggrava, se non confondi le antiche ferite con nuovi colpi, e le recenti non curi prima vagando con una Venere vagabonda o ad altro oggetto tu non drizzi i moti dell’animo.Nei primi due versi “le due coppie allitteranti di incoativi, qui più che mai progressivi, si succedono in crescendo,…simbolo fonico dell’inarrestabile crescere della passione” (Traina 1979, 279-25).
Il linguaggio erotico lucreziano oscilla tra il tovpo” dell’amore-ferita (il peggiorativo e prosastico ulcus sostituisce il nobile ed epico vulnus ; cfr. vv. 1048-1055) e il tovpo” dell’amore-follia.L’allitterazione in “v” del penultimo verso suggerisce il suono di un soffio che passa sulle ferite asciugandole. E’ da notare che tanto il termine ulcus quanto il nesso anxius angor tornano alla fine del poema lucreziano nella descrizione della peste di Atene del 430 (VI, 1148 e 1158).Ammesso che Amore infligga delle ferite, bisogna dire che queste, se comprese, possono diventare un bene:”una ferita è un’apertura. Una ferita è anche una bocca. Una qualche parte di noi sta cercando di dire qualcosa. Se potessimo ascoltarla! Supponiamo che queste “intensità sconvolgenti” siano una sorta di messaggio: sono “cicatrici”, ferite, che segnano la nostra vita. Tutti le sentiamo. E se non le sentiamo, siamo solo bambini, solo innocenza. Si tratta piuttosto di rendersi conto che la vita è una serie di iniziazioni, e questa è un’iniziazione in più. Un’altra apertura a qualcosa che mette alla prova la nostra vitalità. Che sonda la nostra capacità di comprensione. Che espande la nostra intelligenza”. Insomma è il tw/’ pavqei mavqo” di Eschilo, attraverso la sofferenza, la comprensione, che H. Hesse esprime così:”Profondamente sentì in cuore l’amore per il figlio fuggito, come una ferita, e sentì insieme che la ferita non gli era stata data per rovistarci dentro e dilaniarla, ma perché fiorisse in tanta luce.” (da “Amore come dolore” di Giovanni Ghiselli).

La rappresentazione dell’amore nel Medioevo subisce una trasformazione. Prende avvio, a mio parere, una specie di opus alchemico: una fermentazione psichica che, attraverso l’accettazione della propria debolezza e degradazione fisica, permette di entrare in contatto col divino, destinando l’esperienza amorosa a una gloria e una dignità nuove, gettando sul corpo una luce di passione erotizzata e sensuale.
Prende corpo una nuova forza: il corpo non è più martoriato, la mente non è più in preda ad una forma di demenza. Anzi, in fondo all’esperienza del vulnus si può trovare l’estasi, la beatitudine del rapimento. L’unione mistica fra l’anima e Dio viene raffigurata come un unione delle ferite in una copula mistica. Infatti, Wolfgang Riehle tende a interpretarla come “un’analogia piuttosto tipica, intenzionalmente consapevole fra la ferita di Cristo e le pudende femminili”. Inoltre Riehle suggerisce una specie di gioco di parole fra vulva e vulnus. La “copula” dell’anima mistica con il Cristo avviene così nel sito della ferita (vulnus) che viene poi trasformato nella vulva femminile qualora “vulnus vulneri copulatur” ossia ferita è unita a ferita. La chiave dell’idea dell’unire le ferite è che l’anima dell’amante diviene ferita attraverso l’amore, e questa ferita a sua volta gli permette di partecipare della passione di Cristo. Nel testo di Giacomo da Milano colui che scrive viene infiammato dal desiderio di penetrare la ferita. In altri passaggi dello Stimulus Amoris la ferita è oggetto del desiderio del parlante di un’unione (copulo, copulari). Giacomo da Milano utilizza addirittura la metafora della ferita come “cancello del Paradiso”, invocando quel famoso giardino delle delizie, un paradiso privato, che viene di solito riservato alla donna sposa e alla figura allegorica della Chiesa nella Cantico dei Cantici 4:12 “Mia sorella, mia sposa, è giardino impenetrabile, una fontana sigillata”. La ferita di Cristo è quel giardino accessibile attraverso il quale si raggiunge il “focus deliciarum”. L’unione fisica di Cristo e dell’amante nel Cantico dei Cantici avviene attraverso un “buco nel muro” dove Cristo “mette la sua mano” e “le mie interiora si muovono al suo tocco”. Nel testo dello Stimulus Amoris questa immagine è invertita cosicché Cristo spinge alla penetrazione del buco nel suo ventre e offre consolazione e riposo così come ebbrezza ed innumerevoli delizie.Lì l’amante beve, mangia, medita e sperimenta “una tale abbondanza di delizia che è impossibile per lui descriverla” Il capovolgimento della tradizione del Cantico dei Cantici dove Cristo diventa un’amante femminizzato non è mai stato commentato, per quel che ne so’. Nello Stimulus Amoris e in altri passaggi, il genere e la sessualità sono transitivi. (Karma Lochrie)
Il grembo è il contenitore psichico attraverso il quale e all’interno del quale si avvia una riflessione sulla vulnerabilità, la tendenza ad essere feriti. Come suggerito prima, attraverso il processo di riflessione sia le ferite che il grembo diventano a un tempo terreno e portatore di fecondità.
La ferita è l’apertura attraverso la quale si passa dalla notte del corpo all’interezza e alla continuità corporea. Infatti, senza la coscienza della di una ferita, il corpo è, come sempre più spesso accade a chi abita il post-moderno, indistruttibile, inattaccabile, eterno. Per quanto questa in-vulnerabilità aiuti ad abitare questo presente stravolto, indossando una specie di corpo-armatura, diventa invece un ostacolo alla fisicità in generale e al sesso in particolare. Infatti, non si riesce a strapparsi di dosso quest’armatura, questo corpo lucente e inattaccabile, che sempre è giovane, giovane per sempre e sempre si rigenera. Dentro questo corpo sono ospitati e nutriti molti sogni, tra cui l’ideale sottrotraccia, dai contorni vagamente epici, attraverso il quale ci vediamo attraversare la vita. Anche questa osservazione presuppone un distacco che rimane funzionale fino a che non ci si trova corpo a corpo in una situazione che esige non soltanto un corpo pienamente senziente, conscio della sua mortalità, ma anche “ferito”, che si offre nella sua vulnerabilità. In una relazione, fosse anche una fugace relazione di una notte, il corpo sente l’esigenza di svestirsi, di aprirsi. Questa apertura attraverso la quale passa il flusso delle sensazioni della sessualità esige che il corpo si faccia apertura, ospite, feritoia e infine ferita. Senza questa coscienza esiste solo il piano genitale, che, dal punto di ista della nostra cultura, manca sempre di qualcosa. Non voglio qui entrare nella polemica della divisione tra eros e pornè, perchè sarebbe inutile approcciarlo in breve, lo trovo un discorso ozioso e spesso pericoloso perchè spesso di infrange nelle secche della retorica moralista. Quando cerchiamo di sondare qualcosa dobbiamo avere il coraggio della deriva, che un concetto fiorisca fuori dal nostro recinto e del nostro orizonte morale e che ci porti chissà dove. Per questione di argomenti e di spazio credo sia giusto rinviare la discussione eros/pornè ad altra sede Per ora riesco solo a pensare che questa rigida suddivisione non esista in realtà. Esiste solo un amore “imperfetto” a sensorialità limitata e uno più appagante, che, agganciandosi alla ferita della nostra mortalità e fragilità, ritrovi il corpo nel suo peso e nella sua interezza, spalancando una luce abbagliante sui corpi naufraghi.
